domenica, Novembre 24 2024

Alzi la mano chi, in almeno un’occasione con i propri familiari, non ha provato una profonda solitudine, scoprendosi in un luogo diverso dal resto della famiglia.

Una scena, al di là dello schermo, che oggi è diventata la norma, paradossalmente potremmo dire “familiare”, nelle nostre case, come suggerisce l’amara ironia della vignetta di Faro in copertina: un padre che, sconsolato e avvilito, rimpiange i “tempi perduti” in cui tutta la famiglia si riuniva almeno intorno allo stesso schermo. Oggi, con le nuove tecnologie e le nuove forme di comunicazione e intrattenimento, assistiamo a una vera e propria frammentazione del pubblico e della comunicazione familiare. Anche a tavola. E il padre di famiglia del nostro cartone animato sembra essere lì per dirci che questo non va affatto bene.

Un’opinione sicuramente condivisa da Carlos Cachán, professore di Giornalismo e Comunicazione Istituzionale presso l’Università Nebrija di Madrid, e autore di un suggestivo articolo sulla natura della comunicazione televisiva e i suoi effetti sull’educazione e sulla scuola, intitolato La natura della televisione ostacola la comunicazione di qualità. Per presentarlo ai lettori di Family&Media, partirò dalle parole chiave scelte dallo stesso Cachán, che precedono il saggio, come si fa di solito quando si pubblicano articoli su riviste specializzate.

Infatti, è proprio dalle parole che tutto ha avuto inizio, ed è da lì che tutto deve sempre e necessariamente ricominciare. In principio era il Verbo, disse un giorno qualcuno che indubbiamente aveva una buona padronanza dell’argomento.

Natura della televisione – contenuto – tempo – destinatario – veridicità – qualità della comunicazione Di questi sei termini, ne terrò due – televisione e comunicazione – e ne solleverò altri tre che considero altrettanto “chiave” nell’argomentazione del professor Cachán: idea, video, educare.

Tutti sappiamo perfettamente cos’è la televisione. Allo stesso modo, molti potrebbero spiegare in modo molto appropriato che cos’è la televisione. Ma ci siamo mai soffermati sul significato della parola televisione? Letteralmente significa “visione da lontano” o “visione a distanza”, dove quella tele, che troviamo dal telescopio al telefono passando per il telegrafo, evoca proprio questa idea di lontananza. Quindi, guardare la TV è un’esperienza che porta necessariamente il nostro sguardo lontano, in un altro luogo. Proprio quello che sembra lamentare lo sconsolato padre della vignetta di Fato che, per rimediare alla frammentazione del dialogo all’ora di cena, forse potrebbe usare qualche accorgimento per favorire la comunicazione in famiglia.

Facciamo un passo indietro e torniamo a “ver”. Nello spagnolo colloquiale, quando vogliamo esprimere il nostro accordo con l’idea del nostro interlocutore, usiamo spesso la locuzione “lo veo”. Sì, perché prima che un’idea venga pensata, in prima istanza e letteralmente, viene “vista”. Infatti, la sua origine indoeuropea, idêin, indica l’atto del “vedere” e solo più tardi, con il greco, ha acquisito il significato che gli diamo oggi. Ancora più interessante, a mio avviso, è la continuità semantica che esiste tra le parole idea e video, quest’ultimo nient’altro che la sostantivazione al presente del verbo latino videre, che corrisponde al nostro “vedo”.

Alla luce di ciò – un’altra colloquialità che qui calza a pennello – potremmo porci la seguente domanda: cosa succede alle nostre idee, dove vanno a finire mentre guardiamo la televisione? Immaginate di chiedere a qualcuno a cosa pensa mentre è immerso in un film o in un reality show. Tranne che per gli spettatori più critici e attivi, qual è la risposta più ovvia che ci aspetteremmo? Niente”, oppure ‘quello che sto guardando’. Tradotto, le loro idee in quel momento tendono a essere sospese o allineate con quelle del discorso (logos) veicolato dal video.

In principio era il Verbo, ha detto qualcuno. Molto più recentemente, e non a caso, un altro altrettanto abile con le parole ha definito i mass media in termini di “apparati ideo-logici dello Stato”. E forse entrambi hanno colto nel segno. Per i più saggi…

… Poche ma preziosissime parole.

Parole il cui rapporto semantico, per così dire, è il nucleo duro attorno al quale si sviluppa l’argomentazione del professor Cachán che, con efficacia argomentativa e una notevole bibliografia di supporto, ci insegna come “l’attuale predominio e l’influenza della TV e la sua natura […] ostacolano lo sviluppo di una comunicazione di qualità nell’educazione”. Si tratta di un saggio teorico che offre numerosi spunti di riflessione sui media e sulla televisione in particolare, nonché preziosi riferimenti a studi e opere di diversi orientamenti disciplinari (dalla psicologia alla pedagogia, dalle scienze della comunicazione alla letteratura). L’autore fornisce anche una serie di dati statistici comparativi sul consumo di televisione da parte dei bambini di età compresa tra i 6 e i 12 anni, con particolare attenzione agli effetti sui processi di apprendimento e sulla qualità della comunicazione nell’ambiente scolastico.

Ma cosa intende Cachán quando parla di “comunicazione di qualità”? Citando Alberto Gil, la definisce come un tipo di comunicazione caratterizzata dalla presenza di rigore argomentativo, rispetto per l’altro, interesse per l’aiuto, rifiuto della vanità, dell’adulazione e del pragmatismo che cerca solo il proprio interesse al di sopra di tutto e ad ogni costo. Un’educazione di qualità nel campo dell’istruzione”, continua Cachán, ‘richiede che il discorso dell’insegnante sia efficace e riesca a commuovere i suoi studenti e a motivarli all’azione’. Se fino a questo punto siamo pienamente d’accordo con Cachán, non siamo d’accordo con quanto afferma subito dopo: che la comunicazione tra insegnante e studente deve fare a meno del linguaggio emotivo (tipico della comunicazione televisiva) per privilegiare, invece, il rigore e la freddezza concettuale, e che l’insegnante deve utilizzare un discorso persuasivo basato sul ragionamento e finalizzato a trovare prove, esempi e dati a sostegno delle argomentazioni presentate.

Se guardiamo all’etimologia delle parole segnate in corsivo, scopriamo che “motivare” ed “eccitare” hanno la stessa derivazione latina: entrambe si riferiscono a mòtus, participio passato del verbo movère, “muovere”. Ma, nello specifico, “emocionar” deriva da emovère, dove il prefisso e- insiste sulla direzione di questo movimento dall’interno verso l’esterno. Pertanto, “emozionare” significa letteralmente “muoversi verso l’esterno”. Ecco perché le emozioni si realizzano pienamente quando vengono espresse, perché si muovono verso l’esterno, mentre finiscono per produrre frustrazione quando scegliamo di tenerle dentro, di reprimerle. Ora, per chiudere il nostro ragionamento, mettiamo in relazione questa coppia di significati – motivare e commuovere – con la nostra ultima parola chiave, “educare”. Questa deriva dal latino ex-ducere che significa “tirare fuori da dentro” o “far emergere” che, contrariamente a quanto genitori e insegnanti tendono a pensare e a fare, dovrebbe essere la missione principale di un buon educatore. Infatti, l’educatore è colui che sa far emergere ciò che “già risiede semidormiente nell’alba della conoscenza”, come diceva il profeta Khalil Gibran. Un buon insegnante è colui che sa emozionare i suoi allievi, far emergere le loro preoccupazioni emotive. Per usare le parole di Miguel de Unamuno, “un maestro di scuola che sa far piangere, ridere, sentire, immaginare e pensare i bambini è un maestro, un capolavoroe una maestra”.

Questo ci porta a credere fermamente che un’educazione, per essere motivante, deve essere appassionante oltre che emotiva.

Ciò non toglie nulla alla validità complessiva dell’articolo, in cui l’autore riesce a esprimere tutta la complessità dei temi trattati con un linguaggio semplice e assolutamente accessibile. Un riferimento molto prezioso per chiunque voglia comprendere i fenomeni mediatici. Un compendio di risorse molto utili per quei genitori o insegnanti che vogliono riorientare il loro lavoro di educatori e migliorare la comunicazione con i loro figli e studenti. A questo proposito, suggerisco anche la lettura del nostro articolo Televisione, famiglia, infanzia: la televisione non deve essere una “babysitter”.

Vale davvero la pena dedicargli un po’ di tempo… per riaccendere le lampadine… spegnendo per un po’ qualche “luce” in più.

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