lunedì, Dicembre 23 2024

Mentre normalmente la nostra vita quotidiana non è caratterizzata da pericoli, guerre e deserti, i film di Marco Vetter al contrario ci raccontano della forza di ogni uomo nell’ essere protagonista nel difficile momento del perdono.

Quando il regista di documentari Marco Vetter seguì il suo cuore, cinque anni fa, recandosi nella zona in guerra di Jenin, in Palestina, non si aspettava di certo che il suo viaggio desse inizio ad un trilogia di film. Questo perchè non aveva ancora nessuna idea dei silenziosi atti di eroismo che avrebbe trovato laggiù, tra le roventi linee della spinosa questione israeliana-palestinese.

ll recente film Cinema Jenin: La Storia di un Sogno, racconta proprio il dramma di quello che una volta era il più grande teatro da guerra della Palestina, un audace e coraggioso sforzo in risposta alla decisione di un padre palestinese di donare gli organi di suo figlio per salvare la vita di bambini israeliani.

“Pace” è una parola che mette a disagio Vetter, soprattutto se usata con leggerezza, in riferimento alla Palestina. Un posto questo, dove carri armati e veicoli blindati sono divenuti molto comuni per le strade, ed il racconto di incursioni e scontri per le strade costituisce la quotidianità durante l’ora dei pasti. Il regista ha avuto modo di vedere quanto diventano marginali nella vita quotidiana della popolazione locale le ripetute iniziative umanitarie e di pace fallite e ricominciate una volta dopo l’altra. Le persone che hanno vissuto abbastanza in queste aree di limbo per assumere un senso di permanenza sono cresciute comprensibilmente scettiche verso qualsiasi tipo di ideali. “Invece,” afferma Vetter, “la vera rinascita proviene dai piccoli gesti e dalle amicizie che si sono costruite nel tempo.”

Piccole, private, azioni quasi istintive, spesso realizzate sulla scia della tragedia: queste sono il genere di storie che Vetter ha raccontato negli ultimi cinque anni della sua carriera. Vetter non aveva alcuna conoscenza particolare sulla questione israeliana-palestinese nel 2007, quando una società di produzione europea lo invitò a collaborare con il direttore israeliano León Geller per un film documentario su Jenin. La maggior parte dei giornalisti con cui parlava lo avevano messo fortemente in guardia sul progetto. “Avevo conosciuto persone che si erano perse nella tragedia di questo conflitto”, ricorda, “e l’opinione generalmente condivisa era che chi fa un film sulla Palestina vuole solo concludere la propria carriera e che si va a Jenin solo se si è disposti a rischiare la vita.” Ma, fu la forza della storia, la forza di un padre palestinese, Ismael Khatib che l’ha portato sei mesi più tardi nella zona di Guerra nel Nord Ovest del Paese.

Nel 2005, il figlio undicenne di Ismael, Ahmed stava giocando ad “arabi ed ebrei” con due amici tra le strade del campo profughi palestinese, quando un soldato israeliano ha scambiato la sua pistola giocattolo per un’arma vera, sparandogli. Nelle ore che seguirono, Ismael prese la coraggiosa decisione di donare gli organi di Ahmed a bambini che erano in attesa di un trapianto, salvando quattro bambini israeliani. Due anni più tardi, Vetter ed il suo team cinematografico fecero un viaggio con Ismael in lsraele, incontrando i bambini e le famiglie che lui stesso aveva aiutato. La testimonianza di questi incontri è Il documentario Il Cuore di Jenin. Gli spettatori del film trattengono il fiato insieme ad Ismael nel silenzio che accompagna l’accoglienza cordiale nelle case delle famiglie ebree. Si avverte il forte contrasto del già combattente della resistenza che siede sul sofà di un ebreo ortodosso, lo stesso uomo che, anni prima mentre sua figlia era in sala operatoria, commentò che sarebbe stato meglio se avesse ricevuto un rene da un ebreo piuttosto che da un arabo. Ma è in questi momenti di rischio e di vulnerabilità reciproca che i due uomini diventano disarmati nell’animo. A poco a poco cominciano a vedere la comune umanità, ed i loro destini come indissolubilmente intrecciati.Nel film documentario, non è possibile provare a gestire la storia”, riflette Vetter. “Bisogna eliminare il flusso di tutte le immagini che hai nella tua mente, qualsiasi copione si stia tentando di seguire, altrimenti diventa nient’altro che un riflesso dei propri pregiudizi, un film di propaganda”.

E, anche se aveva in qualche maniera tentato, non c’era modo di poter prevedere cosa sarebbe venuto fuori dal viaggio di Ismael. Mentre alcuni sostengono che il film ha ripulito la società palestinese, Il Cuore di Jenin ha attirato l’attenzione internazionale ed ha posto Jenin davanti agli occhi di un vasto pubblico.

Cinema Jenin

Dopo che il film fu completato, Marco a malincuore doveva allontanarsi da Jenin. Ma osservando gli edifici alla sua sinistra, abbandonati fin dall’Intifada del 1987, gli venne l’idea di riaprire il teatro che era stato una volta il più grande della Palestina. Avrebbe offerto alla gioventù, come Ahmed Khatib, un’alternativa alla vita di strada ed una finestra al mondo esterno. Chiese alle persone che vivevano nel campo profughi di Jenin di immaginare quello che sarebbe potuto accadere se si fossero impegnati nel creare un luogo dove potevano incontrarsi tutti e condividere qualcosa di vero, provocatorio come un buon film.

Centinaia di volontari hanno aderito aiutando la gente di di Jenin nella ricostruzione nell’edificio di quello che sarà il primo vero centro culturale della Palestina, alimentato con energia solare, con risorse indipendenti ed economicamente sostenibile. Artisti, tecnici, investitori, e persone da tutto il mondo che vogliono dare semplicemente una mano ora appartengono al progetto “Cinema Jenin.” Molti di loro sono venuti a vedere con i loro occhi questo luogo considerato uno dei più pericolosi sulla terra.

Dopo il silenzio

Il caso volle che,dopo una proiezione del Cuore di Jenin ad Haifa (Israele), mentre il progetto di costruzione per il “Cinema Jenin” era già in corso, una donna ebrea si avvicinò a Vetter raccontandogli la propria storia. Yael Armanet aveva perso suo marito in uno dei successivi attacchi suicidi a Haifa nell’aprile del 2002, mentre pochi giorni prima l’intero campo profughi di Jenin era stato raso al suolo per rappresaglia Architetto ebreo ed attivista di pace palestinese, Dov Chernobroda stava mangiando nel ristorante di proprietà arabo-israeliano di Matza, quando un adolescente di nome Shadi Tobassi entrò nel ristorante e si fece esplodere insieme alla bomba legata al suo corpo. Da allora Yael tremava nel sentire solo nominare quel posto. Ora quella donna si domandava se sarebbe mai potuta andare a Jenin, come suo marito avrebbe fatto sicuramente, e guardare negli occhi della madre dell’attentatore di suo marito.

Cosa si porta dietro la morte? Cosa c’è dopo la vita? Queste sono le domande che Yael e la troupe cinematografica si posero per documentare la loro eventuale visita a Jenin.

“La cosa più importante nel produrre dei buoni film è la fiducia”, afferma Vetter con soddisfazione oggi, riferendosi ad una caratteristica precisa dei suoi progetti. Infatti, Vetter stesso non era mai stato parte della troupe cinematografica che ha registrato Il Cuore di Jenin, lasciando il progetto nelle mani di due donne (sue ex allieve) che lo hanno diretto, una fotoreporter, ed un tecnico del suono, senza che avessero mai avuto parte in precedenza alla realizzazione di un film.

L’ultimo dei film di Vetter, Cinema Jenin: La Storia di un Sogno, conclude una trilogia di storie che si intersecano a Jenin. Rivela alcune delle complessità e difficoltà che sono venute fuori con la costruzione di un’area comune in un posto caratterizzato da estremi. Per il direttore che, nel 2008, non avrebbe mai immaginato la storia di un uomo che lo conduce attraverso tre film documentari e la fondazione di un’organizzazione internazionale senza scopo di lucro, la saga di Jenin è la testimonianza vera che “Quando si ha da raccontare una storia forte con un soggetto vero, ci si deve aprire per raccontare ciò che ha bisogno di essere detto.”

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