domenica, Novembre 24 2024

“Sa cosa volevo fare? Volevo denunciarla. Ero andata anche dal mio avvocato. E invece sa una cosa? Le dico Grazie. Grazie per aver sbagliato, dottore!” Indicò con la mano il piccolo Giulio. “È la gioia della nostra famiglia”.

Queste parole furono rivolte al dott. Massimo Segato – attualmente vice-primario di ginecologia presso l’ospedale di Valdagno (Vicenza, Italia) – da una donna che si era recata da lui per abortire e che, invece, si era ritrovata ancora incinta dopo l’operazione.

Qualcosa non era andato come previsto e il piccolo era rimasto nel ventre della madre; il dott. Segato aveva sbagliato l’intervento e Giulio era venuto al mondo.

Si era trattato di un errore medico, spiegherà poi, ma dell’errore più bello della sua vita, col quale, involontariamente, aveva reso più felice una famiglia, semplicemente spaventata di lasciarsi sconvolgere dall’arrivo di una nuova vita.

Quella vicenda segnerà l’inizio del dissidio interiore del dott. Segato, la cui storia di medico non obiettore di coscienza è raccontata nel libro autobiografico L’ho fatto per le donne, edito da Mondadori nel 2017 (136 pagine, prezzo 17,50 €).

Se l’utilitarismo si scontra con la voce della coscienza

Il dott. Segato inizia la sua carriera di medico ginecologo nei primi anni ’80, poco dopo l’introduzione della legge che rende legale l’aborto in Italia, una legge per la quale egli afferma di essersi battuto fin da quando frequentava l’università.

Il motivo che lo spinge a credere nella bontà del provvedimento legislativo? La sofferenza di pensare a delle donne in crisi che si recano di nascosto da persone incompetenti per abortire, rischiando la loro stessa vita.

Gli aborti clandestini, sostiene, portano alla perdita di due vite, mentre abortire in sicurezza garantisce almeno la salvezza della madre.

Un ragionamento utilitaristico, che non tiene conto dei diritti dei nascituri, ma che Segato giustifica in questo modo: “Io sono un medico: faccio scelte pratiche, non filosofiche. Se posso scegliere di salvare una vita anziché perderne due, preferisco salvare quella vita…”

Questo ragionamento, però, che va a minare le fondamenta della giustizia sociale, poiché non prevede il rispetto dei diritti di tutti, ma tollera la sopraffazione di alcuni per la tutela di altri, logora anche la coscienza personale del dottore, che molto presto si ritrova ad odiare il suo “sporco lavoro”.

In particolare, gli scrupoli di coscienza si acuiscono a seguito di quell’“intervento sbagliato”, con cui ha permesso ad un bambino che doveva essere abortito di nascere.

“Barbara e Giulio mi avevano scosso in profondità, toccando corde che non conoscevo – arriverà a scrivere – Quel bambino sveglio, discolo e furbetto era dentro di me e giocava con la mia anima. Quando decidevo di interrompere una gravidanza, Giulio urlava e scalciava”.

Eppure, nonostante la sua coscienza gli dica a gran voce di fermarsi, lui continua a scegliere, ogni volta, l’obbedienza a quella legge.

Riluttanza per l’aborto e incapacità di difendere la vita: un’incoerenza che genera dolore 

Nel descrivere i due ambiti del suo lavoro – le nascite e le interruzioni – nel suo libro, Segato parla in questo modo:

“Di qua gli aborti, di là nascite. E in mezzo quella porta. Una porta di colore grigio, pesante e fredda come la sala operatoria che lasciavo dietro di me: i gambali ginecologici, le valve, gli aspiratori, le cannule. Freddo l’ambiente, freddi gli animi, freddo il sangue. Perché freddo è l’aborto. Triste, silenzioso e terribilmente freddo. Almeno quanto è calda l’ostetricia con le sue mamme e i loro piccoli.”

Se, allora, gli viene chiesto perché abbia scelto di essere un medico abortista, lui si difende prontamente, quasi offeso da quell’aggettivo: “Io non mi definisco abortista. Nessuna persona equilibrata, seria, sana di mente può essere a favore dell’aborto. L’aborto è una realtà orribile. Sarei la persona più felice del mondo se nessuna donna scegliesse più di farlo… Però è una realtà che esiste e una legge consente di abortire in sicurezza. Io mi limito ad applicarla, lo faccio per garantire un servizio previsto dallo Stato…”

Segato, in cuor suo, prende così tanto le distanze dell’aborto, che arriva perfino ad affermare di essere “un automa” mentre opera e se gli si chiede come mai non smetta di rendersi complice di qualcosa che considera un abominio, lui risponde, cercando di autoconvincersene: “Non mi ritengo complice. La scelta di abortire non la prendo io, anzi, se posso, cerco sempre di far cambiare idea alle donne, cerco di convincerle che avere un figlio è qualcosa di meraviglioso. E molte volte ci riesco anche. Quando, però, la donna è determinata e non cambia idea decido di fare io l’intervento perché non vada a mettersi in pericolo altrove…”

Eppure, queste giustificazioni non bastano a placare i suoi sensi di colpa: il diktat della legge, il volere delle donne, la consapevolezza che “se non lo farà lui lo farà qualcun altro” devono scontrarsi con la voce di tutti quei “bambini già un po’ formati” (testuali parole) che lui vorrebbe lasciar vivere ancora e dei quali, invece, causa la morte con le sue stesse mani.

Ogni intervento lo lacera, lasciando in lui dubbi sulla bontà del suo lavoro e sofferenze.

“Abbiamo bisogno di vagiti, non di aborti”, dice con tristezza: una tristezza rassegnata, però, quella di chi vorrebbe che le cose andassero diversamente, ma poi accetta di essere parte dello stesso sistema malato che critica… una tristezza contaminata dall’incoerenza, perchè vorrebbe un mondo diverso, ma poi contribuisce a farlo restare esattamente così come è.

Praticare aborti? È brutto come uccidere in guerra

Spesso ci si schiera, ideologicamente, a favore dell’aborto. Si grida che è un diritto, che è segno di civiltà, che si tratta di un passo avanti per la società e si dice che è indice di progresso.

Si sostiene che la donna deve poter disporre del proprio corpo e che abortire è sinonimo di libertà e emancipazione.

I medici che obiettano, allora, sarebbero solo dei retrogradi, degli insensibili, dei cinici. Sarebbero ciechi di fronte al dolore delle donne.

“Io capisco i miei colleghi obiettori – dice invece Segato – e li rispetto. A nessuno piace procurare aborti. È facile parlare dall’esterno, senza entrare in sala operatoria, senza sapere cosa succede lì dentro. Mio padre è stato chiamato alle armi e ha dovuto uccidere delle vite. Non era contento di farlo, ma lo ha fatto per servire lo Stato. Io mi sento come lui, un soldato al servizio dello Stato, ma ogni volta che entro in sala operatoria devo otturarmi il naso”.

Questo paragone, ovviamente, non regge. Quando opera, Segato, non è costretto a scegliere tra la propria vita e quella della donna, come accade in guerra.

Potrebbe scegliere senza conseguenze (la morte o il carcere, ad esempio) di schierarsi sempre e comunque a favore della vita. Potrebbe decidere di non macchinarsi più di sangue innocente.

Nessuno lo obbliga a partire per la sua guerra, né a sparare.

E, ammette, la tentazione di smettere l’ha avuta sempre.

Tuttavia, il dubbio che viene parlando con lui è che scegliere di obiettare avrebbe significato ammettere che fino a quel momento aveva lottato nel fronte sbagliato: evenienza, questa, troppo difficile da sopportare, visto che con le sue mani ha posto fine a delle vite.

Più che mai ora, dopo una carriera pluridecennale, accettare di aver sbagliato lato del campo significherebbe guardare in faccia tutti i quattromila bambini non nati che ha sulla coscienza.

E allora lui continua per la strada intrapresa, cercando di dirsi ancora che lo fa e lo ha fatto per le donne, anche se il timore di aver sbagliato battaglia è sempre dietro l’angolo:

“Quanti bambini come Giulio non avevo fatto nascere? A quante famiglie era stata negata la felicità che avevo visto negli occhi di Barbara? Io avevo toccato con mano quella felicità, non erano solo parole. […] Barbara era venuta perché voleva abortire e voleva abortire perché si sentiva vecchia e stanca. […] E io avevo assecondato questa sua preoccupazione, nel nome di una legge che lo consentiva. Sembrava quasi che Giulio fosse venuto al mondo per dimostrare che ci eravamo sbagliati entrambi. […] E quanti come lui non avevano potuto dimostrarlo? Centinaia? Migliaia?”


Cari medici, voi sapete cosa sia realmente l’aborto: non chinate il capo


Se è vero, come dice Segato, che abbiamo bisogno di vagiti e non di aborti, è vero anche che abbiamo bisogno di medici che non si pieghino come fa lui.

Vedendo molto più da vicino di noi l’orrore dell’aborto avete il dovere di illuminare la coscienza collettiva.

Abbiamo bisogno di operatori sanitari consapevoli che ci dicano quanto scegliere la vita sia meglio, come ha fatto ad esempio Abby Johnson, direttrice di una clinica abortista che è poi diventata attivista pro-life (si legga un articolo che abbiamo scritto sulla sua storia: Direttrice di una clinica abortista diventa attivista pro-life: la toccante vicenda di Abby).

Abbiamo bisogno di medici che risveglino la coscienza sociale, che ci scuotano dal torpore di slogan urlati da persone che non toccano con mano la morte come voi.

Caro dott. Segato, lei parla come una persona che non ha speranza: sceglie un apparente “male minore” perché non ha il coraggio di schierarsi a favore del Bene. Lei, infatti, il Bene, lo vede lontano, irraggiungibile. E allora, pensando che non può arrivare alla Luce, sceglie la penombra.

Eppure, potrebbe essere proprio lei una luce per la nostra società, se solo smettesse di accettare compromessi col male, se solo alzasse la testa e dicesse: “Basta”.

Può fare molto più di quanto crede per cambiare la cultura.

Non basta che lei dica con rammarico: “Io lì vedo una vita. So che c’è una vita. Indipendentemente da ciò che dice la legge, indipendentemente da ciò che vuole la donna”.

Abbiamo bisogno che lei scelga la vita, che scelga di lottare per difendere una verità che vede nitidamente.

Lo deve prima di tutto alla sua coscienza.

E poi, tanti, proprio grazie alla sua testimonianza, potrebbero smettere di aderire ad una cultura di morte. E potrebbero iniziare ad operare, insieme a lei, quel cambiamento che adesso le sembra impossibile.

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