venerdì, Novembre 22 2024

Con la gentile autorizzazione dell’autore, Fabrice Hadjadj, riproduciamo questo articolo già pubblicato su Avvenire.

Il romanticismo si è sviluppato contemporaneamente alla rivoluzione industriale. A prima vista, esso si presenta come una reazione a quest’ultima: contro il rigore logico illuminista, il romanticismo afferma il mistero della notte stellata; contro la razionalizzazione dei rapporti sociali, esalta la passione, il colpo di fulmine, l’incontro imprevedibile che sfida le istituzioni. L’uomo e la donna allora non trovano tanto la loro realizzazione nella famiglia, troppo istituzionale, quanto nella coppia che fugge nei boschi o su un’isola deserta, per vivere d’amore e acqua fresca.

Wagner compone Tristan und Isolde nel 1865, l’anno di fondazione della Chicago and North Western Railway e della Società per le strade ferrate romane. Niente sembra opporsi al rumore delle locomotive più della melodia infinita degli amanti solitari e maledetti. E tuttavia la motorizzazione e il romanticismo troveranno una certa unità nel cuore di Adolf Hitler, lui che in gioventù era pronto a rinunciare a mangiare per molti giorni pur di assistere una terza volta al Tristano…

Si tratta dunque soltanto di una reazione? Non c’è forse un legame più essenziale, direi anche una certa complicità, tra la visione romantica dell’amore e l’industrializzazione della produzione?

Il romanticismo presenta la relazione amorosa tra uomo e donna come fuori dal mondo. E’ un “tu ed io”, “io e tu”, e non importa se in città o in campagna, in un palazzo o su una zattera. L’arca sulla quale Noè imbarca la sua famiglia e tutti gli animali non acquatici perde il suo valore emblematico. Anche sul Titanic, soprattutto sul Titanic, gli amanti possono amarsi: vada pure a fondo la nave, essi si amano ancor di più perché il loro amore si manifesta allora come più vasto e più profondo dell’oceano – subito prima di annegare…

Lungi da me l’idea di contestare assolutamente questa meraviglia, e non soltanto per il timore di perdere ogni credito presso le fanciulle in fiore. L’amore, nella sua grazia, è un avvenimento che crea in qualche modo le proprie condizioni di possibilità. Quante storie testimoniano di quel fulmine, quello shock che sconvolge ogni programma e ogni fatalità? Nel romanzo 1984, quando Winston e Julia si amano per la prima volta in mezzo a una radura, sfuggono al Big Brother: “Il loro amplesso era stato una battaglia – scrive Orwell – l’orgasmo una vittoria. Era un colpoinferto al Partito. Era un atto politico.” L’incontro dell’uomo e della donna è così naturale che fa tremare la pesante costruzione artificiale. Esso ha il carattere dell’origine – la freschezza di una sorgente anche in mezzo al deserto. — Del resto, se Dio crea il mondo per amore, bisogna pensare che ogni vero amore sia in qualche modo anteriore al mondo e possegga il potere di rinnovarlo.

Il nostro amore resta tuttavia quello di creature, dipendenti dal loro ambiente. Credere a un amore umano al di sopra ogni condizione materiale sarebbe cadere in una grave eresia spiritualistica. Pure il vivere d’amore e d’acqua fresca ha bisogno almeno dell’acqua fresca, potabile, che diventa sempre più rara e deve essere depurata e venduta da imprese private. In un’aria troppo tossica è impossibile dire: “Ti amo”.

E senza una casa dove vivere insieme è impossibile che l’amplesso superi l’illusione e la disillusione dell’orgasmo. Julia e Winston possono conoscere quell’attimo isolato lontani dal mondo totalitario: per svolgere la loro relazione nella durata, hanno bisogno di un rifugio propizio, ed ecco perché finiranno in frantumi, fino a neanche riconoscersi più.

Nel suo grande romanzo Le Particelle elementari Michel Houellebecq emette questa terribile sentenza sull’amore dei suoi due personaggi Michel ed Annabelle: “In mezzo al suicidio occidentale, era chiaro che i due non avevano nessuna speranza. Continuarono tuttavia a vedersi una o due volte la settimana. Annabelle andò da un ginecologo e ricominciò a prendere la pillola.”

Quest’ultima osservazione fa riferimento a un passaggio precedente del libro che rievoca la legalizzazione della contraccezione in Francia e il suo rapporto con una società sottomessa al paradigma tecno-economico: “Il 14 dicembre 1967, l’assemblea nazionale adottò in prima lettura la legge Neuwirth sulla legalizzazione della contraccezione; benché non ancora rimborsata dal Sistema Sanitario, la pillola era ormai liberamente in vendita nelle farmacie. A partire da quel momento, larghi strati della popolazione ebbero accesso alla liberazione sessuale, sin lì riservata all’élite sociale ed economica e agli artisti. Fa un certo effetto osservare come spesso tale liberazione sessuale venisse presentata sotto forma di ideale collettivo mentre in realtà si trattava di una nuova tappa nell’ascesa storica dell’individualismo. Come indica la bella parola “menage”, la coppia e la famiglia rappresentavano l’ultima isola di un comunismo primitivo in seno alla società liberale. La liberazione sessuale ebbe per effetto la distruzione di queste comunità intermedie, le ultime a tener lontano l’individuo dal mercato. Questo processo di distruzione prosegue ancora oggi.”

Se « ménage » ( famiglia ) è per Houellebecq una “bella parola” è proprio in quanto la famiglia ménage ( prepara, ordina – in francese ) un luogo che resiste alla mercificazione generalizzata del reale. Genera figli, trasmette usi e savoir-faire, produce beni che non appartengono direttamente allo scambio monetario o all’innovazione tecnologica. Perlomeno questo è quello che faceva. Nella contabilità nazionale francese esiste la categoria dei “ménages” di cui si precisa che, d’ora in poi, “la funzione principale è il consumo.” Il padre deve lasciare il posto all’esperto, la madre al mercato. L’educazione è delegata agli specialisti di nuove pedagogie. La generazione stessa richiede i servizi delle industrie biotecnologiche. I genitori sono solo lavoratori dipendenti che pagano baby-sitter e educatori professionali, mentre i figli appaiono già come individui liberi e futuri self-made-men.

In un’altra pagina di Le Particelle elementari, Bruno spiega a suo fratello perché non riesce ad entrare in relazione con suo figlio che passa tutto il tempo con i videogiochi: “Avere figli, una volta, implicava la trasmissione di uno stato, di regole, di un patrimonio. E questo principalmente nell’ambito dell’aristocrazia, ma non solo: anche tra i commercianti, i contadini, gli artigiani, in pratica tutte le classi sociali. Oggi tutto ciò non esiste più: io sono impiegato e abito in affitto, che cosa dovrei trasmettere a mio figlio? Non ho nessun mestiere da insegnargli, neppure so cosa potrà fare da grande; e, comunque, per lui le regole che ho conosciuto io non saranno più valide, vivrà in un altro universo. Accettare l’ideologia del cambiamento continuo significa accettare che la vita di un uomo sia strettamente ridotta alla sua esistenza individuale, e che le generazioni passate e future non abbiano più alcuna importanza ai suoi occhi. Ecco come viviamo. Avere un figlio, oggi, non ha più nessun senso per un uomo.” Lo stesso personaggio, alcuni capitoli più tardi, dice alla sua amica Christiane: “Le cose che mi circondano, che utilizzo e di cui mi nutro, sono incapace di produrle, non sono neppure in grado di comprendere il loro processo di produzione. Se l’ industria dovesse bloccarsi, se gli ingegneri e i tecnici specializzati dovessero improvvisamente scomparire, io non sarei in grado di partecipare neanche in minima parte a una ripartenza. Tagliato fuori dal complesso economico-industriale, non sarei nemmeno capace di assicurare la mia sopravvivenza, non saprei come nutrirmi, come vestirmi, come proteggermi dalle intemperie; la mia personale competenza tecnica è abbondantemente inferiore a quella dell’ uomo di Neanderthal.”

Mi scuso con voi se mi sono permesso di citare così lungamente un romanziere che considero uno dei più fini analisti del nostro tempo. Le sue constatazioni formano un introduzione perfetta a ciò che vorrei provare a sviluppare assieme a voi. Houellebecq conserva una visione molto romantica della relazione tra uomo e donna ma si accorge che tale visione non è soltanto una reazione: è anche un collegato del mondo tecno-economico. Credere che gli amanti possano realizzare il loro amore al di la di qualsiasi condizione materiale è renderli indifferenti e dunque loro malgrado complici delle condizioni materiali loro imposte, che li circondano e che finiscono per fagocitarli. Soprattutto, è rappresentarsi il loro amore al di fuori della fecondità familiare, o rappresentarsi la famiglia esclusivamente come un insieme di persone che si amano al di là di ogni economia e di ogni politica, e non come un dato al tempo stesso naturale e culturale che costituisce il dominio economico e forma la base della Città.

Dal momento in cui la comunità di uomo e donna non è più concepita come un oïkos, e dunque come il luogo primo dell’economia e dell’ecologia, dal momento in cui essa è vista come un amore separato dalle strutture sociali, quella stessa comunità con la sua avventura essenziale, si disfa. Diventa soltanto la società passionale e passeggera di due salariati (il romanticismo, lo ripeto, si basa sull’avvento del lavoro dipendente). E questa società si regge, bene o male, per volontarismo morale, come in apnea, in una fedeltà che è innanzitutto uno sforzo per onorare un contratto, ma che non corrisponde più alla realtà di una fruttificazione comune nell’intreccio dei compiti quotidiani. Piuttosto che essere apertura drammatica alla vita, diventa un elemento del divertimento totale, una fuga davanti all’angoscia del vuoto e della morte.

Ciò che sto cercando di dire mira a scongiurare due errori comuni, uno a proposito della difesa della famiglia, l’altro a proposito della difesa dell’ambiente naturale, dal momento che queste due difese sono divise tra loro o persino si danno addosso a vicenda.

Il primo errore è difendere la famiglia in “assenza di gravità”, indipendentemente dal suo rapporto con una terra, una casa, un compito, un’economia. Questo errore è frequente tra i cristiani, più romantici che romani. Essi denunciano per esempio l’ideologia dei gender studies come se si trattasse soltanto di una lotta ideologica e quei gender studies fossero la causa del male e non un sintomo. In compenso, si dimenticano di criticare il sistema tecno-economico, e scendono perfino a patti con esso mentre è il sistema tecno-economico, molto più di gay e lesbiche, che si trova all’origine del diniego dei generi e dei sessi.

Ivan Illich lo sottolinea nel suo libro del 1983, Il Genere vernacolare: “Una società industriale può esistere solamente imponendo un postulato unisex: i due sessi sono fatti per lo stesso lavoro, percepiscono la stessa realtà e hanno gli stessi bisogni – l’abito è solamente una differenza trascurabile.”

E precisa in una nota: “Gli storici, compresi quelli che studiano le idee economiche, non hanno notato che la scomparsa del genere crea il soggetto della scienza economica. […] La nuova definizione dell’uomo in quanto soggetto e cliente di un’economia disembedded (“disincastrata”, staccata dai rapporti sociali – si veda Karl Polanyi, La Grande Trasformazione) ha una storia. […] L’identità istituzionale dell’homo oeconomicus esclude il genere. È un neutrum oeconomicum. La scomparsa del genere è un dato di base della storia della scarsità, o rarità, e delle istituzioni che la strutturano.”

Illich parla di una istituzionalizzazione della scarsità nel mondo tecno-economico, perché questo mondo parte dal principio che i beni sono scarsi e che di conseguenza bisogna essere competitivi, di quella competitività che implica la concorrenza dei soggetti e l’innovazione degli oggetti. La famiglia nella sua realtà essenziale è il nemico di questo dispositivo: all’innovazione oppone la trasmissione; alla concorrenza, la complementarità; alla scarsità infine, che coincide in effetti con la frustrazione davanti agli ostensori della pubblicità, la famiglia oppone lo stupore davanti alla vita semplice, attorno a una tavola, a condividere il frutto del lavoro delle nostre mani, a raccontare le storie di ieri e di oggi, a combattere per un avvenire comune piuttosto che per un fatturato. E’ dunque necessario, se non vogliamo fermarci a un romanticismo ambiguo o a un moralismo vano, pensare la relazione uomo-donna come relazione o scambio fondanti per l’economia.

Il secondo errore sarebbe pensare la questione ecologica a partire dall’ecologia scientifica e cioè da una preservazione della natura attraverso alcuni parametri che si tratterebbe di gestire al meglio attraverso gli algoritmi. Un tale ecologismo opera già sotto il dominio del paradigma tecno-economico e produce solamente il rafforzamento del tecnologismo che vorrebbe invece combattere. Si comincia con il difendere gli alberi ma si finisce per avere gli occhi incollati su un contatore. Del resto è questo tecnologismo che, allontanandoci dalla natura reale, ci fa sognare una Natura ideale fatta di paesaggi-sfondo e una fraternità tra preda e predatore degna di Walt Disney: qui ancora, il sogno romantico del ritorno alla foresta vergine è il prodotto della rivoluzione industriale. Si ammirano Tristano e Isotta che fuggono nella foresta di Morrois proprio perché la coppia di tutti i giorni non sa ormai fare altro che spingere un carrello nella giungla delle merci e che il prendere una banana da uno scaffale imita il gesto della raccolta nell’abbondanza paleolitica, sempre a patto che si abbia del denaro e che esista un’industria agro-alimentare.

Il grande dramma di un tale ecologismo, tuttavia, è che dimentica la natura là dove essa si dà a noi in primo luogo. Non nel panda o nella foca, ma nel nostro corpo di animale razionale, particolarmente attraverso la sessualità. La donna incinta è al tempo stesso più umana e più mammifero che mai: è qui che il suo legame con tutti i viventi si manifesta di più. Certo, da una gravidanza non potrà mai scaturire un iPhone 8 ma è già venuto fuori uno Steve Jobs, cosa che è molto più impressionante. La famiglia ci mostra la natura nella sua capacità di generare ingegneri, e questo dovrebbe ricordare loro una certa umiltà. La natura trae del resto il suo nome dalla nascita (natura deriva da nascor, “nascere”): più della fioritura del fiore, la fioritura di un viso ci mostra una primavera più forte, nel suo rinnovamento, di tutte le innovazioni tecnologiche. Infine, prendere cura della madre e del piccolo, nutrirli, difenderli, ci allontana dal robot ma ci riavvicina al tempo stesso al pellicano grigio e a san Giuseppe, come se l’animalità e la spiritualità non potessero crescere in noi che di conserva.

Così un’ecologia concreta ha il dovere di essere un’ecologia umana non innanzitutto perché l’uomo possiede una dignità che lo distingue dagli animali, ma perché l’uomo è il primo animale, la prima natura con la quale siamo in rapporto, ed è a partire dall’accoglienza di questa prima natura che la nostra cura può estendersi, per così dire, naturalmente alle altre nature.

I due errori precedenti, quello di una famiglia difesa all’infuori di ogni economia, e quella di un’ecologia difesa all’infuori di ogni famiglia, ci rimandano alla radice comune delle parole “economia” ed “ecologia” : oikosoikia che in greco significano “focolare domestico”, “casa”, “casato”, “famiglia”. Oggi, quando si parla di ecologia, si opera un formidabile manipolazione, come qualcuno che dicesse di essere enologo e, invece di parlarci del sapore del vino, si mettesse a proporre un business plan atto ad aumentare i guadagni di un’azienda vitivinicola. Questa prospettiva è utile; ma perde di vista la cosa essenziale, cioè il vino in sé, col suo colore e il suo bouquet di aromi, vino che rallegra il cuore dell’uomo (Sal 103,15). Se la definizione fosse rispettosa dell’etimologia, se l’enologia si interessasse al vino, l’ecologia non sarebbe più la scienza degli equilibri di un ecosistema, ma un discorso sull’avventura della sessualità umana.

L’ecologia scientifica, e l’ecologismo politico che ne deriva, cercano di porre limiti allo sviluppo industriale, ma questi limiti sono pensati a partire dai principi liberali della scarsità e della concorrenza che sono gli stessi dello sviluppo industriale: si tratta di gestire meglio la scorta delle “risorse” allocate dal “pianeta” e di fare in modo che la libertà individuale degli uni non sconfini sulla libertà individuale degli altri, presenti o futuri. Pensare i limiti in questo modo è pensarli in modo costruttivista, a partire dalla coerenza di un sistema teorico e di una pianificazione. Ma l’oggetto di un’ecologia vera, integrale, è pensare i limiti a partire da un sostrato naturale. Questo sostrato è la sessualità umana. È quello dell’animale e del vegetale che ci è più vicino, quello della nostra stessa carne. Chi si impegna nella protezione del porcellino d’India e della rosa ma che prima non protegge il capriccioso porcellino d’India o la rosa molto spinosa che si trova nelle sue mutande, dimentica il luogo dove l’ecologia si dà come vocazione personale e non come ideologia.

Senofonte ha scritto un dialogo intitolato l’ Economico. Di cosa si tratta, per lui e per gli Antichi? Di “bene amministrare il proprio patrimonio domestico.” La frase in greco suona pleonastica poiché dice di εὖ οἰκεῖν τὸν ἑαυτοῦ οἶκον (ben oikare il proprio oïkos) o per dirla in francese « bien ménager son ménage». Notiamo en passant che la parola francese « ménage » ha conosciuto la stessa deformazione di economia: nel XVI secolo management è la traduzione francese del greco “economia”. Il management, all’origine riguarda “la forma e il modo di governare onestamente e proficuamente la cosa domestica”; cosa che ciascuno sa d’istinto quando per esempio deve accogliere in casa i suoceri: occorre per questo la più grande abilità manageriale.

Nel primo libro dei suoi Economici, Aristotele scrive: “L’economia è, per sua origine, anteriore alla politica; la sua opera è la famiglia e la famiglia è una parte essenziale della Città”. Questa frase del primo libro è la prova che il secondo libro è apocrifo: nel secondo libro si inventa infatti l’espressione “economia politica”, destinata a grande fortuna dopo Adam Smith. Ora l’economia politica è manifestamente, secondo la citazione precedente, una contraddizione, e soprattutto un’usurpazione. Attraverso di essa la Città si arroga il potere che appartiene propriamente alla famiglia, le confisca la sua capacità di operare, la riduce esattamente a un proletariato. Il termine “proletario” viene infatti da proles, la prole, e rimanda a quelli che non hanno altra ricchezza che i loro figli e le loro figlie, nell’attesa che l’industria riesca a toglier loro anche questo ultimo potere ed a fabbricare essa stessa i bambini.

Aristotele prosegue il suo lavoro definitorio affermando che “le parti della famiglia (oikia) sono l’uomo (anthropos) e il possesso (ktèsis).” Per “uomo” il termine è generico: si intende l’uomo, la donna, i figli, i nonni e i servitori. Quanto alla parola κτῆσίς, qui tradotta con “possesso”, essa designa al tempo stesso la proprietà e la ricchezza, ma tutti e due come frutti di un lavoro che può essere di acquisizione o di conservazione. Poi Aristotele cita un verso del grande poeta fondatore: “Si potrebbe dire con Esiodo, che occorre innanzitutto una casa, poi una donna e un bue da lavoro, perché la casa (oikos) è una condizione primordiale per la sussistenza e il resto è ciò che conviene agli uomini liberi.”

L’uomo libero qui non è il celibe, ma il marito di una donna, liberato dal suo individualismo e dalla sua sterilità. E la donna è posta tra la casa e i buoi per l’aratura. Femministi e romantici potrebbero indignarsi. Eppure Esiodo esprime perfettamente ciò che è implicato nella relazione uomo – donna come ecologia primordiale. Un uomo non accoglie una donna solamente nelle sue braccia, deve accoglierla in una casa. E con lei deve essere capace di assicurare la sussistenza per loro stessi, per i loro figli e per i vecchi genitori grazie al bue da lavoro, e cioè attraverso l’agricoltura, l’allevamento e il piccolo artigianato, perché l’amore pone subito la domanda dei cibi, dei vestiti, dell’abitare: andare a letto con qualcuno presuppone di poterlo fare da qualche parte, e amare l’altro è senza dubbio provare sentimenti forti ed appassionati, ma è anche in maniera molto elementare avere di che vestirlo e nutrirlo. Anche l’amore divino implica questa elementarità: il segno che Cristo ci ama è che si dà a noi anche come Pane.

È abbastanza terribile vedere giovani che si amano e che bruscamente, perché il romanticismo non li ha preparati a questo, scoprono che il loro amore implica tutta un’economia. Certamente percepiscono questo come una caduta. Ma la caduta originaria è al contrario quella di diventare una coppia senza economia: cadere, per Adamo ed Eva, fu la perdita di quell’Eden nel quale erano stati stabiliti per coltivarlo e custodirlo (Gn 2, 5 e 15). Il loro matrimonio implicava un giardino. La vita domestica non si limitava al salone e alla sala da pranzo. Esigeva un campo.

Ma da quando l’economia consiste nella dispersione della famiglia e nella sua sottomissione al lavoro d’ufficio, si può comprendere che la necessità di stabilirsi appaia ai giovani innamorati come una caduta. La questione economica si riduce alla questione finanziaria. L’oikos ha ceduto il posto a un trilocale dove ci si riduce a consumare articoli prodotti dall’industria – diciamo, a stirare di ferro abiti prêt-à-porter guardando serie televisive americane – ed è impossibile essere veramente padrona di casa o padre di famiglia. È normale, allora, che la donna creda di emanciparsi quando lavora per un capo, e che l’uomo, nel suo stesso maschilismo, sia contentissimo di lasciarle il posto, avendo avuto il tempo di disilludersi sul carattere liberatorio del lavoro d’ufficio.

Virgilio ha guidato Dante attraverso l’inferno per condurlo fino al purgatorio. Credo che se ritornasse oggi ci guiderebbe attraverso i centri commerciali per condurci fino a un orto. Non dico questo solamente perché immagino che l’inferno procuri ai suoi abitanti ottimi navigatori satellitari che li preservino definitivamente dal dover chiedere la strada a qualcuno. Lo dico perché la celebre beatitudine di Virgilio: Felix qui potuit cognoscere causas, “Felice colui che ha potuto conoscere le cause” non si trova in un trattato di filosofia e neppure nell’Eneide, quando l’eroe scende in fondo al Tartaro, ma nelle Georgiche che celebrano l’agricoltura (il verso poetico trae dal resto il suo nome dal latino versus che designa innanzitutto l’azione di volgere l’aratro alla fine del solco).

Perché conoscere le cause appartiene ai contadini prima che alla metafisica? È proprio l’autore della metafisica, Aristotele, che permette di confermare Virgilio. Nella definizione aristotelica l’economia è focalizzata sulla famiglia e il possesso, e il primo possedimento è fornito dall’agricoltura; dunque, secondo Aristotele il matrimonio e il lavoro dei campi non possono essere dissociati: “L’economia deve regolamentare i rapporti dell’uomo con la sua donna e cioè determinare la natura di quelle relazioni. Nelle cure dei possedimenti bisogna seguire l’ordine della natura. Ora, secondo quest’ordine, l’arte dell’agricoltura viene prima di tutte le altre; poi, vengono le attività che estraggono le ricchezze dal suolo, come lo sfruttamento delle miniere, la metallurgia, ecc. Ma l’agricoltura è maggiore nell’ordine della giustizia; perché non è esercitata dagli uomini come una professione arbitraria, come quella degli osti e dei mercenari, né come una professione forzata, come quella dei guerrieri. Aggiungiamo a questo che l’agricoltura è maggiore nell’ordine della natura; perché la madre fornisce a tutti il cibo naturale; e la madre comune a tutti gli uomini, è la terra.”

Laddove noialtri postmoderni poniamo il commercio sopra ogni altra attività, gli Antichi ponevano l’agricoltura, probabilmente perché conoscevano meglio la leggenda di re Mida e l’impossibilità di mangiare l’oro o il denaro. L’agricoltura era per essi il mestiere più nobile. Cicerone nel De officiis scrive così: “Tra tutte le occupazioni da cui si può trarre qualche profitto, la più nobile, la più feconda, la più dilettevole, la più degna di un vero uomo e di un libero cittadino è l’agricoltura.” D’altra parte “sono indegne di un uomo libero e sordide le fonti di guadagno di tutti i salariati, dei quali il lavoro e non il talento è ricompensato; infatti il loro stesso salario è il prezzo di una servitù.”

Abbiamo perso l’abitudine di vedere nel contadino un uomo libero e nobile, perché abbiamo fatto del contadino un industriale e un commerciante produttivista, mendicante di sovvenzioni, di concimi chimici, di semi transgenici, che teme non tanto l’aleatorietà del meteo quanto quella del Borsa mondiale delle materie prime. In Francia niente sembra più difficile del mestiere di agricoltore e il numero di suicidi tra di loro è molto elevato. Tuttavia, come osserva Chesterton: “L’insuccesso di un coltivatore di rape del Sussex si riduce spesso a quello di venderle e non al mangiarle.” Ora, è innanzitutto di questo che si tratta qui, non di uno sfruttamento agricolo incardinato nel commercio internazionale, ma di una cultura agraria che assicura la sussistenza delle famiglie o di quella associazione di famiglie che è il villaggio.

Agli occhi di Aristotele e di Cicerone, il contadino non è un anello della catena industriale agro-alimentare. È il primo giusto e il primo conoscitore della natura, e dunque delle cause, in un modo sperimentale e non concettuale. L’agricoltura appare come la prima giustizia perché produce i cibi senza i quali i figli degli uomini non potrebbero vivere e si sa che Aristotele non teme di cominciare la sua Metafisica con quel buonsenso contadino che gli fa dire: Primum vivere deinde philosophari, prima assicurare i bisogni della vita e poi fare filosofia (il che assicura alla filosofia il suo carattere di contemplazione che va oltre l’utile).

L’agricoltura non è solamente la prima attività giusta ma è anche la prima attività aggiustata per la natura, quella che sta “più nell’ordine naturale”, perché ci spinge a operare a partire da una generosità che precede la nostra ingegnosità. Per questo ci rimanda intuitivamente dalla causa fisica alla causa metafisica, sia perché la generosità non è la nostra (la crescita della zucca non è ancora completamente opera di ingegneri) sia perché essa è precaria (il tempo e il raccolto possono essere cattivi). La cultura delle zucche, secondo Virgilio, conduce al culto degli dei: “voi numi protettori dei contadini […] canto i vostri doni […]

e se non invocherai la pioggia con le preghiere , ahimè ! Inutilmente starai a guardare il grosso raccolto di un altro e consolerai la fame nelle selve scuotendo la quercia
!”

Il primo scambio non avviene tra gli uomini, attraverso il commercio, ma tra l’uomo e le natura, e cioè tra l’uomo e la donna e tra l’uomo e la terra (del resto, come abbiamo visto con Aristotele, la terra e la madre tendono a scambiarsi gli attributi, perché l’una e l’altra sono portatrici di una fecondità e di un cibo di cui non siamo noi gli autori). Se l’economia ha per oggetto lo scambio delle ricchezze, essa deve considerare innanzitutto il primo scambio detto prima. Perderlo di vista è perdere la conoscenza elementare delle cose e affidarsi interamente a un sistema dove la ricchezza si riduce allo stipendio e la vita è fornita dalla tecnologia.

Chesterton commenta così le parole di Virgilio: “Quello che non va con l’uomo moderno che vive nelle città moderne, è che ignora le cause; ed è per questo che, come dice molto giustamente il poeta, può essere soggiogato dai tiranni e dai demagoghi. Non sa da dove provengono le cose; è simile a quell’impiegato che dice che ama il latte che esce da un negozio pulito e non da una mucca sporca. Più sofisticata è l’organizzazione della città nella quale vive, più sofisticata è l’istruzione che ha ricevuto, e meno somiglia all’uomo felice di Virgilio che sapeva la causa delle cose. La civiltà urbana può riassumersi nel numero di negozi e di intermediari attraverso i quali passa il latte, dalla mammella della mucca fino al consumatore; vale a dire altrettante opportunità di sprecare il latte, di tagliarlo, di alterarlo, di avvelenarlo e di finire per imbrogliare il consumatore. “

Si obietterà che tra tutti questi intermediari ci sono anche medici e dietologi che si sforzano di far applicare delle norme sanitarie rigorose. Si aggiungerà anche che la grande distribuzione permette di avere immediatamente sottomano un cartone di latte, e che non è molto comodo andare tutte le mattine mungere la propria mucca prima di andare in ufficio. Ma è proprio questa la truffa più grande, non il fatto che il latte sia adulterato o che sia venduto al di sotto del giusto prezzo, ma che ignoriamo il tempo e la pazienza e il lavoro e la riconoscenza che occorrono per ottenere queste cose, nel fatto che mangiamo fette di prosciutto senza avere avuto mai la bontà di nutrire e di curare un maiale né il coraggio di abbatterlo con tristezza e gratitudine.

Il mondo tecno-economico ci fatto entrare in un apparente immediatezza di cui la sola mediazione visibile è il denaro. Premiamo pulsanti, tiriamo fuori la carta di credito, e hop! otteniamo la pappa pronta e tiepidina. Il punto è che questo mondo promuove soprattutto delle relazioni pulsionali. E’ dunque normale, in questo contesto, che la relazione uomo-donna, strappata al suo oikos e sottomessa al supermercato, sia essa lstessa in preda alle pulsioni, all’impazienza e alle ultime novità.

L’oikos è al tempo stesso il luogo della famiglia e del lavoro dei campi perché è il luogo del rapporto con l’origine, con le cause naturali. È questo il senso in cui si può parlare di famiglia come cellula di base della società. Non soltanto perché essa produce i figli, vale a dire i futuri impiegati delle multinazionali, nel qual caso sarebbe solo un proletariato in senso stretto; ma perché è in essa che si gioca l’articolazione della natura e della cultura, e dunque un modello di tecnica e di economia che non schiaccia, ma accoglie e compie il dato naturale. L’ostetrica è onorata più dello specialista in ortogenetica. Il contadino vi figura come più essenziale del banchiere.

È a questo punto che diventa chiaro il rapporto tra il cosiddetto matrimonio gay e l’egemonia industriale. Non nego che un uomo possa essere innamorato di un altro uomo. Ma la grande differenza con l’amore tra un uomo e una donna è che questo amore omofilo è antifisico, (per citare un aggettivo del principe de Ligne, amico di Casanova) o spiritualistico, o sofisticato. È l’amore che conviene perfettamente alle condizioni di vita imposte dall’industria dell’innovazione e dalla fabbrica dei bambini in provetta. Direi anche che è l’apoteosi del romanticismo. Al contrario, quando un uomo ama una donna, non ci sono in gioco soltanto la sua voglia individuale o le sue fantasie private: con il suo desiderio umano egli fa suoi tutti gli slanci dell’animalità sessuata, porta con sé la libidine del lupo e del gallo forcello, la danza nuziale del granchio violinista, la parata del porcospino, i rosoni di sabbia fatti dal pesce-palla per sedurre la sua compagna… Che l’unione con l’altro sesso nasconda qualcosa di comune con le piante e gli animali è una grazia che precisamente conferisce all’uomo la sua dimensione cosmica.

Il matrimonio è il fatto culturale per eccellenza, perché si fa carico della natura in una parola precisa, perché costruisce su un dinamismo naturale, e non, come i tecnocrati, a partire dall’applicazione di una teoria. In questo senso il matrimonio sta al principio di un’ecologia integrale e di una economia sana, per poco che sia cosciente di sé conservando la propria autonomia, restando il primo luogo di produzione e non solo un luogo di consumi commerciali, rinnovando l’alleanza col giardino, la fattoria e l’orto.

Certuni non tarderanno a giudicarmi troppo nostalgico o troppo utopico. Non ho forse preso gli antichi per modello? Non ho vagheggiato una possibilità che sembra andare in senso opposto alla nostra società? Probabilmente si. Ma la nostalgia non è sempre cattiva, se rimpiange qualcosa che era veramente buono. E l’utopia può essere buona se ci impedisce di rassegnarci davanti al male.

Innanzitutto, non voglio ritornare ai tempi dei greci o dei latini. Da una parte, la loro visione del mondo riposava in gran parte sulla schiavitù e anche su un inizio di esaltazione del ruolo dello specialista. Nel suo Economico, Senofonte non teme di far dire a Socrate che un esperto in scienza economica potrebbe essere migliore di un padre di famiglia per governare la casa in cambio di uno stipendio. Dai greci e dai latini, ho trattenuto solamente ciò che mi sembrava umano, adatto a tutte le epoche.

Ma è vero che la nostra epoca è tentata dalla fuoriuscita dall’umano. In questa atmosfera, l’accusa di utopia è come rovesciata. Non mira più a condannare uno che progetta un mondo ideale e futurista, ma quello che ricorda un mondo completamente reale e antico. Il post-umano della nostra epoca ci dirà che è assolutamente impossibile essere falegname, o vignaiolo, o pastore. Che sono cose assolutamente inverosimili, mentre è possibile incrociare il cyborg all’angolo della strada o sullo schermo tattile. Questo genere di utopismo lo faccio mio volentieri. Perché è quello dell’umanità semplice all’epoca dell’ ultra-sofisticazione. E più ancora è quello della Santa Famiglia – l’Agia oikogeneia. La famiglia di Nazareth compie del tutto l’oikos di cui parlo e la mia sola originalità è di mostrare che non è solamente un’icona della santità ma anche un esempio di sana economia.

In conclusione, desidero solo ricapitolare brevemente il nostro itinerario. Ivan Illich afferma che il “postulato unisex” è “la caratteristica antropologica decisiva che distingue il nostro tempo da tutti gli altri” e collega questo postulato all’assiologia del paradigma tecno-economico. Ne abbiamo dedotto che la relazione tra uomo e donna non può svolgersi senza contestare tale paradigma e riorganizzare intorno a sé l’oikos capace di sostenerla contro ogni “individualismo romantico” – sono parole di Papa Francesco. La famiglia appare allora come lo zoccolo duro dell’ecologia integrale, perché è il primo luogo dove la natura si apre allo stupore e alla pratica attenta, attraverso la coniugalità e la procreazione; abbiamo però insistito anche sul fatto che la solidità di questo zoccolo dipende da una riappropriazione da parte della famiglia della sua capacità economica di godere di ciò che essa stessa produce mentre l’economia commerciale dovrebbe avere solamente un ruolo complementare e non esclusivo.

Non sto facendo l’apologia degli Amish. Riunisco soprattutto le tesi del distributismo inglese, sostenute all’inizio del XX secolo da Chesterton e Hilaire Belloc. Il distributismo, a uguale distanza dal comunismo e dal capitalismo, voleva prolungare l’enciclica Rerum novarum difendendo la piccola proprietà familiare, con la mutualizzazione dei beni tra le famiglie, la reintroduzione di piccole parcelle agricole e delle corporazioni degli artigiani. L’obiettivo era che ci fosse meno capitalismo e più capitalisti. Perché il problema non è innanzitutto quello della distribuzione dei beni né dell’equità degli stipendi, ma della distribuzione del capitale stesso e della sussidiarietà dei mezzi di produzione.

Non siamo più ai tempi della Rerum novarum ma a quelli della Laudato si’. La questione assume un’altra dimensione e si tratta di lottare non soltanto per non diventare disumani, ma soprattutto per restare umani, su una terra ancora abitabile, e cioè degna di essere celebrata come nelle Georgiche. Papa Francesco constata che “il degrado ambientale e il degrado umano ed etico sono intimamente connessi” e che “qualunque cosa che sia fragile, come l’ambiente, rimane indifesa rispetto agli interessi del mercato divinizzato, trasformati in regola assoluta”. Ora l’accoglienza di ciò che è fragile e naturale si realizza innanzitutto nella famiglia attraverso il neonato che rilancia il dramma al tempo stesso doloroso e felice dell’umanità. Questo neonato, nella sua stessa vulnerabilità, ci comanda di prendere cura della creazione, perché è la sua culla, tra il bue e l’asino. Il piccolo nella sua mangiatoia riceve per prima l’adorazione dei pastori. Esige l’arca e non il Titanic. Reinventa l’oikos e ci invita così aduna ecologia che non è un’ideologia ma il nostro pane quotidiano.

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