giovedì, Novembre 21 2024

Geert Lovink. Networks Wihout a Cause. A Critique of Social Media, Polity Press, Cambridge, 2011.

Lovink è il direttore dell’Institute of Network Cultures presso l’Università di Amsterdam ed è diventato famoso con il libro Zero comments. Teoria critica di internet (Mondadori Bruno, 2008, trad. A. Delfanti), uno studio sulla blogosfera uscito proprio nel momento in cui l’esplosione dei blog faceva sperare nella nascita di uno spazio globale di dibattito pubblico.

Nonostante il titolo, il suo nuovo libro parla non solo di social network, ma anche di molti altri argomenti legati al Web 2.0, cercando di descrivere, da un punto di vista accademico, a che punto sia l’evoluzione di internet e quali siano le possibili previsioni per il futuro. In aggiunta, e come potrebbe essere diversamente, Lovink postula una nuova direzione dei media studies. E lo fa, paradossalmente, dopo aver denunciato il fallimento degli studi generali sui mass media: “Il campo di studi sui media ha avuto poca coerenza sin dagli origini e sono stati sempre considerati in qualche modo come aria fritta” “Media studies had little coherence as a field or a discourse from the beginning and have always been accused of faddishness and hot air before taking off” (p. 83). Sostiene, inoltre, che come esiste la figura del critico d’arte, o di letteratura o di cinema, in grado di definire i parametri di valore e di giudizio di queste arti, così ci dovrebbe essere un “critico di internet”, che decida che cosa vale la pena di vedere su internet per orientare al meglio gli utenti.

Intuizioni e avvisi ai naviganti

Il libro è molto eterogeneo, con capitoli che riprendono articoli già pubblicati in precedenza ma aggiornati e rivisti. Perciò non ne faccio un riassunto ma prendo invece una selezione di intuizioni e osservazioni, utili per orientare un pubblico generalista, che è ancora molto propenso a credere ai vantaggi sociali che una tecnologia “neutra” come internet abbia portato alla odierna società democratica:

1. “Dopo che internet ha cambiato il mondo, ora il mondo sta cambiando internet”: l’opinione, ingenua e fin troppo idealista, che la tecnologia digitale favorisca automaticamente la partecipazione democratica, quasi come fosse un “contenitore pubblico aperto” senza frontiere, in grado di assicurare a tutti una libertà senza limiti sociali e istituzionali è molto diffusa nell’immaginario collettivo degli utenti della rete. Ma le cose non stanno così e ogni volta lo sono sempre meno. I blog, ad esempio, più che promuovere il dibattito pubblico e il coinvolgimento nelle cause sociali sono “grotte con l’eco”, cioè nicchie, per non dire “ghetti”, di utenti che la pensano allo stesso modo e che si parlano tra di loro. Questa affermazione può essere rinforzata dalle più recenti ricerche che analizzano i blog politici in tre paesi (Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania): coloro che hanno identico o simile orientamento politico mettono dei links a quelli che portano “mantelli della stessa pelliccia” (Ki Denk Hyun.  Americanization of web-Based Political Communication? Comparative Analysis of Political Blogospheres in the Unites States, the United Kingdom and Germany, in “Journalism and Mass Communication Quarterly”, 89 (3), 397-413). Per non parlare poi di quanto accade nell’ambito dei valori (questioni morali e di religione, per esempio). Nel capitolo terzo si documenta l’evoluzione dei blog dal 2003 (data del loro studio iniziale pubblicato in Zero Comments): i commenti sui blog non sono la “voce del popolo”, senza mediazioni, ma puri strumenti per aumentare il traffico on line. Lovink utilizza un intelligente gioco di parole per illustrare, che funziona anche in spagnolo: (e)s(t)imular / simulare. Più che commenti sono reazioni, di solito, a un altro commentatore. Non generano discussione o dibattito. L’autore, se è molto seguito dai suoi followers, dovrebbe dedicare tutto il suo tempo solo a rispondere i loro commenti, cosa che ovviamente non fa. È già abbastanza se li seleziona. Inoltre, ci sono programmi per generare commenti in automatico proprio per fingere il dibattito e aumentare così il traffico: “Persona Management Software ” o “You Tube Comment Poster Post”, solo per citare due tra i software più noti tra gli addetti ai lavori.

2. Le reti sociali e soprattutto Facebook, stanno generando inoltre un forte buonismo e conformismo sociale. Facebook è una “macchina di auto-promozione”. Non c’è nessun pulsante per il “non mi piace”, ma è ammesso solo il “Mi piace”. Inoltre non è consentita la falsa identità. Lovink a tal proposito afferma che: “Le reti sociali non esistono per affermare qualcosa di vero, ma per renderlo vero attraverso infiniti potenziali click” (“Social networking is not about affirming something as truth but more about making truth through endless clicking”) (p. 43). Per Lovink, l’unico modo di uscire da questo vicolo cieco è quello di consentire l’anonimato: “Non sono ciò che dico di essere” (“I am not who I am”). Le reti sociali sono nati senza un motivo – da qui il titolo del libro – e sono mangiatori di tempo per gli utenti. Nessuna sorpresa per gli esperti che da tempo sanno che le reti sociali sono grandi business basati sull’offerta di servizi gratuiti in cambio della raccolta di informazioni preziose degli utenti che vengono poi venduti ad altre aziende.In questo senso, come ha sottolineato l’autore, parlando di “Googlezzazione” delle nostre vite, Google non è solo il più potente motore di ricerca su internet e un generoso fornitore di servizi per gli utenti (g mail, Google news, YouTube, Cloud, ecc.) ma soprattutto è l’unica società pubblicitaria efficiente in rete. Il suo famoso e molto ben conservato segreto – l’algoritmo di ricerca – è il mito di El dorado che si avvera per la pubblicità:sapere finalmente chi visualizza o legge per davvero e non solo potenzialmente una pagina web. Da qui si può ben dedurre che in futuro – per non dire già ora – “l’importante” non è la pubblicità a seguire ciò che è importante, che conta, ma sarà essa a decidere ciò che è importante, con un’abile combinazione di interessi commerciali e algoritmi matematici “neutrali”. E’ come dire, camminiamo verso “l’algoritmica della conoscenza”.

3. Che il Web sia la rappresentazione complessiva della conoscenza – per non usare il termine ormai inflazionato di globalizzazione – è un’altra utopia. Nell’agosto del 2008 gli utenti internet cinesi avevano superato quelli americani. Oggi solo il 25% degli utenti utilizza inglese. In definitiva, la tecnologia di per sé non aiuta a superare le barriere linguistiche e culturali automaticamente.Che il web abbia creato uno spazio sicuro per l’esercizio senza limiti della libertà di espressione è un sogno da cui ci siamo svegliati dall’ormai tristemente famoso 11 settembre: “Le agenzie di polizia e di sicurezza utilizzano sofisticate tecnologie per identificare l’IP degli utenti distruggendo di fatto – sottolinea Lovink – l’anonimato”. A ciò si aggiunga che i governi nazionali si sono appropriati della competenza di assegnare e controllare gli indirizzi IP in ogni paese per proteggere la propria industria culturale (film produzione, copyright, ecc.). Secondo Lovink, uno dei migliori usi sociali di internet, oltre ad essere un business redditizio, è Wikipedia. Un social network del tutto particolare, basato sulla condivisione della conoscenza. Anche se non è tutto oro ciò che luccica in Wikipedia ed è necessario uno studio specifico in merito che l’autore non porta avanti in questo suo libro.

Valutazione del libro

Il libro di Lovink è indirizzato agli esperti del settore, ideale per freekies e per gli accademici, ma non adatto certamente ad un pubblico di massa. Si pone molte questioni e offre poche risposte; a volte si esprime per slogan e spesso presenta delle intuizioni acute che aiutano a riflettere in modo critico. Tra le tante cose sottolinea che l’utopia tecno-libertaria, di cui l’autore è un pò nostalgico, almeno tra le righe, è un’utopia. La diagnosi sul fallimento accademico degli studi sui mass media è accurata; le cause invece non lo sono. Inoltre, è proprio la focalizzazione e sui supporti tecnologici piuttosto che sui contenuti che hanno portato al disorientamento tra gli studiosi. La sua proposta quindi di creare un “critico di internet” non sembra praticabile: su quali basi e cognizioni il presunto critico dovrebbe giudicare e quali sarebbero poi i contenuti meritevoli di giudizio? Perché su internet si trova di tutto. E se il critico considera solo le applicazioni sociali, torniamo sempre allo stesso problema della prevalente attenzione ai media e i loro usi. Sono d’accordo con la critica a Nicholas Carr e ad altri predicatori “apocalittici” (doomsday preachers), come vengono chiamati. Semplicemente, siamo in un’epoca di transizione, di assimilazione della tecnologia, come è successo per gli elettrodomestici negli anni cinquanta. Quando furono presenti in tutte le famiglie, si è smesso di parlare di loro. Le organizzazioni e le persone si stanno aprendo lentamente nell’utilizzare – e discriminare – cosa prendere e cosa no, cosa cambiare e cosa non cambiare. Rimane ancora molto da imparare, soprattutto sul piano personale: “Si diventa proprietario degli strumenti non solo quando si sa usarli, ma anche quando si conosce il momento giusto per smettere di usarli”.Internet cambia molto rapidamente. Per la data di pubblicazione del libro (2011), non poteva essere data la notizia della pubblicazione il 25 gennaio 2012, della bozza della Commissione europea di proposta di regolamento generale di protezione dei dati dell’Unione europea, il cui iter legislativo dovrebbe essere completato nel 2014. Gli Stati Uniti stanno seguendo un percorso parallelo, con diversi criteri ispiratori, a partire dalla “Consumer Data Privacy in a Networked World” della Casa Bianca del febbraio del 2012. Ma il dibattito legislativo sull’argomento è stato in corso per anni e Lovink non sembra che se ne sia mai interessato molto. Da questo nuovo quadro giuridico, una volta approvato, cambieranno molte cose.Parafrasando infine l’autore, “internet una volta ha cambiato leggi, oggi che le sentenze della Corte lo stanno trasformando, presto la legge cambierà internet”.

Previous

Presi nella rete. La mente ai tempi del web

Next

Intervista a Colin Brady

Check Also