I segreti delle griffes. Cosa si nasconde dietro la comunicazione della moda: bisogni reali o solo suggestioni emotive?
È’ da poco uscita in libreria una nuova edizione rinnovata del libro di Gianfranco Bettetini e Armando Fumagalli, Quel che resta dei media, Angeli, Milano. A più di dieci anni dall’uscita della prima edizione del volume (nel 1998), gli autori ripropongono una sintesi aggiornata dell’evoluzione nel panorama dei media, dall’esplosione dei reality show fino all’emergere di nuove forme di intrattenimento digitali e interattive.
Un capitolo del libro (che riportiamo per intero nella sezione Documenti ) è dedicato in particolare alla comunicazione nel campo della moda, argomento curato in particolare da Paolo Braga e Armando Fumagalli.
Inizialmente gli autori ripercorrono le tappe dell’evoluzione della moda, fenomeno commerciale e di costume esploso in Italia a Milano alla fine degli anni Settanta. Analizzano la sua nascita e la prima espansione negli Stati Uniti e poi a seguire, negli anni Novanta, la diffusione in tutti i mercati del mondo, grazie ad una solida alleanza tra stilisti ed industriali e ad ingenti investimenti in campagne di comunicazione. Poi le difficoltà degli anni Duemila, le crisi economiche, la concorrenza di gruppi francesi del lusso e di catene commerciali come Zara e H&M. E mentre dal punto di vista industriale assistiamo ad un ripensamento totale del modello di business, alla luce anche delle nuove sfide ed esigenze avanzate da Paesi fino a quel momento fuori dal mercato, come Cina e Russia, i media invece consacrano la moda come fenomeno collettivo di massa. Mai nessuno infatti come gli stilisti hanno ottenuto un impatto culturale tanto rilevante negli ultimi decenni, influenzando il cinema, il teatro, l’architettura e la letteratura con le loro tendenze. Fino a conseguire una vera e propria legittimazione artistica e presa sugli opinion leaders.
Ma come è stato possibile tale fenomeno? Gli autori individuano la causa soprattutto nel ricorso massiccio alla leva pubblicitaria, che ha contribuito in maniera decisiva a far esplodere l’aura delle griffes.
Una comunicazione pubblicitaria però, che a differenza degli altri settori, si è appiattita sempre di più su immagini di modelle in atmosfere sensuali, e non su reali vantaggi competitivi dei prodotti, perdendo così notevolmente in originalità e diversificazione. La strategia seguita da tutte le marche è stata quella di elevare la figura della modella ad elemento saliente ed unico della comunicazione, in particolare attraverso un idealtipo longilineo determinato.
Le implicazioni negative, soprattutto a livello sociale e psicologico, di questo andamento comunicativo sono piuttosto evidenti, e molti studi confermano il dato. La comunicazione della moda offre un canone standard di bellezza in base al quale valutarsi e progettare di modificarsi. Non mira ad offrire degli ideali puramente estetici, ma al contrario suggerisce degli obiettivi a portata di mano e assolutamente realizzabili, che fanno centro in un mondo di desideri non soddisfatti, aspirazioni e frustrazioni. Detto in altri termini, pubblicizza un modello di corpo non propriamente salutare, che “fa scuola” soprattutto tra le ragazzine che in esso vedono il passaporto per ottenere sicurezza in se stesse, successo, o semplicemente per relazionarsi agli altri. C’è dunque, ed è vivo, il problema dell’identità di genere.
La critica degli autori a questo punto del capitolo si fa molto dura.
Il fatto che questioni così evidenti fatichino ad attecchire si deve in buona misura all’assenza di voci critiche in grado di influire sugli addetti ai lavori, cioè al sostanziale silenzio dei giornalisti e degli opinion leader teoricamente deputati a recensirne gli eccessi. Numerosi sono gli spunti di riflessione che lanciano gli autori, i quali si chiedono se sia mai possibile che la moda continui il suo ruolo di creatività, colore, esaltazione della linea, del tessuto, della bellezza del corpo, rinunciando però all’esasperazione della sensualità e a quelle declinazioni che spingono – più o meno coscientemente – verso attrattive dannose alla salute e alla propria identità personale.