venerdì, Novembre 22 2024

Sherry Turkle. Alone Together. Why we expect more from technology and less from each other. Basic Books, New York 2011.

Che relazione posso mantenere con il mio computer non appena avrò letto questo articolo? A quante e mail avrò voglia di rispondere ogni giorno? Come cercherò di essere al passo con la tecnologia che mi richiede di essere permanentemente on-line, sempre e dovunque, che permette ai genitori di inviare decine e decine di messaggi o di fare chiamate più volte al giorno ai propri figli? Che rapporto potrò instaurare con questa tecnologia che apparentemente facilita la loro socializzazione, incrementando esponenzialmente i contatti personali in rubrica? Che evoluzione ha subito il nostro modo di relazionarsi e di socializzare con il prossimo in rapporto allo sviluppo tecnologico?

Legarsi ad uno strumento hi-tech come un palmare, un cellulare, un computer o portare avanti normali attività che presuppongono di essere connessi on line permanentemente, sono situazioni della vita ordinaria, proprie del nostro secolo, che esigono una riflessione profonda su come la tecnologia colpisce e influenza la nostra sfera sociale e le nostre relazioni.

Sherry Turkle, psicologa ed insegnante di Sociale Studies of Science and Technology al MIT di Harvard (Boston), esplora in questo libro, dopo The Second Self (1984) e Life on the Screen (1995), come i crescenti sviluppi della tecnologia abbiano moltiplicato le possibilità di relazioni e contatti, diminuendo però al tempo stesso la profondità e la forza dei nostri rapporti, dando luogo ad un maggiore isolamento.

Il libro si divide in due parti: “The robotic moment. In solitude, new intimacies”, (Il momento robotico. Nella solitudine, una nuova intimità condivisa) e “Networked. In intimacy, new solitudes”, (Connessi. Nell’intimità condivisa, una nuova solitudine). Il gioco di parole condensa precisamente l’intenzione del libro: analizzare come la tecnologia ha tentato di risolvere alcuni problemi di solitudine, di attenzione familiare ma, contemporaneamente, sviluppando nuove possibilità di connessione e di relazione, ha provocato una grande solitudine individuale.

Nella prima parte dell’opera Turkle illustra uno studio che ha realizzato su differenti “robot” negli anni 80, 90 e nel nuovo millennio: dal Tamagotchy e Furby fino a Paro, Kismet o Cog, benché si tratti di robot molto diversi tra di loro e con funzioni assai distinte, non sempre dello stesso livello. L’autrice ha studiato in particolar modo la relazione che si stabilisce, in due precisi ambiti che, a loro modo, cercano di dare delle soluzioni ad una situazione di solitudine certamente non voluta: in ambito educativo, durante l’età dell’infanzia, attraverso i giocattoli intelligenti e nell’ambito della salute, con persone anziane e malate costrette a passare molto tempo da sole.

In entrambe le sfere , lo sviluppo tecnologico ha migliorato le prestazioni dei robot, riuscendo a creare una interfaccia speciale e differente rispetto a quella tradizionale o con gli assistenti medici, nel caso di persone malate: le somiglianze dei robot con gli esseri umani genera una relazione speciale che va ben oltre l’auto-proiezione e che possono procurare sollievo nelle persone che si sentono sole o creare la sensazione di compagnia in quelle anziane. Il problema, segnala l’autrice, è che la solitudine e la necessità di relazione in entrambi i casi hanno una radice umana: la mancanza di attenzione, di affetto e di tempo. Un robot non potrà mai sostituire le persone perché non può amare o accompagnare nel senso più profondo del termine, non può offrire un amore gratuito, un’attenzione disinteressata, una donazione non programmata, libera, umana.

Nella seconda parte del libro , l’autrice analizza, attraverso decine di interviste e analisi di comportamenti, il modo in cui la tecnologia ha cambiato le relazioni tra le persone, grazie ad Internet, alle e mail, alle possibilità offerte da Second Life, ai dispositivi mobili e alle reti sociali. Le enormi possibilità di arricchimento personale e l’incremento dell’efficacia lavorativa che facilitano la vita a milioni di persone, non hanno avuto però sempre effetti positivi: la chiave  è tutta nel modo in cui si accoglie la tecnologia nella nostra vita.

Turkle spiega i condizionamenti lavorativi che nascono dall’essere sempre connessi e che possono generare gravi problemi familiari, ed analizza alcuni effetti delle nuove tendenze negli adolescenti: sono cresciuti incantati dalla tecnologia e la formazione della loro identità ha seguito processi diversi rispetto a quelli delle generazioni precedenti perché vivono in modo diverso l’autonomia dai genitori, e dedicano meno tempo alle relazioni interpersonali che richiedono una presenza fisica o vocale (telefono): preferiscono l’invio di messaggi o le reti sociali perché è più facile esercitare un controllo emotivo e temporale sui testi scritti che si presentano apparentemente come meno vulnerabili e meno imprevedibili, capaci di dare una immagine migliore o più attraente.

Il problema è che i messaggi e le reti sociali creano una “etichetta sociale”, nuove regole di relazione che a loro volta sviluppano una forte pressione dalla rete virtuale alla realtà: necessità di essere sempre disponibili on line per essere contattati, la tirannia di un profilo virtuale progettato accuratamente per sembrare migliori, il frequente aggiornamento dello stesso…La tecnologia progettata per facilitare la vita potrebbe paradossalmente impadronirsi della nostra esistenza. Non sono infrequenti casi di “stress” relazionale tra persone giovani o maggiorenni.

L’autrice non demonizza di certo i progressi tecnologici, consapevole del valore e delle grandi possibilità, come quella di mettere in collegamento tra di loro persone sole, con poco tempo libero, di fortificare le relazioni tra persone distanti, o permettere una maggiore efficacia, velocità e simultaneità in ambito professionale. Tuttavia, analizza anche alcuni dei problemi generati dagli utenti stessi: uno di essi è certamente l’uso improprio della tecnologia da parte degli adolescenti: ad esempio quando si creano profili e relazioni virtuali “sfacciati” o decisamente più intimi rispetto alla realtà, confidando nell’anonimato delle reti sociali.

Un altro esempio è quello offerto da molti adulti multitasking, sempre connessi che lasciano che sia la rete a decidere le priorità della propria esistenza e che dedicano poco tempo reale ai propri figli o ai propri coniugi, rimanendo vittime di molte frustrazioni sentimentali e problemi psicologici; la difficoltà aggiuntiva in questo caso è che non sono in condizioni di educare i figli ed esigere da loro un buon uso della tecnologia perché essi stessi sono i primi a non dare il buon esempio.

Il messaggio morale del libro sembra essere la necessità di utilizzare la tecnologia in modo adeguato alla nostra condizione umana, in accordo con l’età e le situazioni personali. Tuttavia l’autrice, nonostante ponga l’accento più volte sulla dimensione umana e personale, non offre proposte educative concrete per adulti o adolescenti che permettano un uso equilibrato della tecnologia, né criteri etici nel modo di coltivare le relazioni virtuali.

Un’altro dei limiti del libro è la base empirica: Turkle menziona gli studi realizzati attraverso decine di interviste in diverse scuole, università, ospedali, ma non spiega in profondità il metodo, né la rappresentatività dei campioni statistici utilizzati, anche perché corrispondono a studi realizzati in diversi periodi di tempo con persone di età molto variegata. Nella prima parte, infatti, molte interviste sono rivolte a bambini dai 5 ai 13 anni o a persone anziane o ammalate. Nella seconda invece ci sono soprattutto adolescenti o adulti in situazione lavorativa.

Le dichiarazioni degli intervistati sono certamente valide a livello statistico-quantitativo, ma il problema è che non sono omogenee, dando luogo così a un’idea dispersiva e non del tutto chiara, anche perché si mischiano con conversazioni provenienti anche da altri contesti. Non sono chiari, per esempio, i motivi che portano ad unire le affermazioni di un’adolescente con quelle di un impiegato o un studente universitario, o con quelle di una persona con problemi psicologici.

Un altro aspetto migliorabile è la volontà di non affrontare sul piano etico i comportamenti, la natura o i contenuti delle relazioni che si generano attraverso la tecnologia. In realtà molte affermazioni di adolescenti e bambini con genitori assenti o di adulti con difficoltà relazionali o confessioni anonime sul web, mirano alla necessità di far emergere anche una dimensione etica ed un’apertura che va oltre il mondo fisico e delle sensazioni perché stanno in gioco concetti come famiglia, amore o intimità. L’autrice non fa riferimento alla trascendenza, ma sembra intuire questa necessità di apertura quando realizza un vago riferimento alla fede ebraica.

Infine, è da segnalare come limite generale che alcuni prodotti tecnologici di cui si parla con molto entusiasmo, come Furby o Second Life, hanno avuto un’influenza passeggera o hanno perso forza commerciale negli Stati Uniti ed in Europa, motivo per cui non siamo sicuri se devono essere trattati come fenomeni del passato o del presente.

Il libro è interessante e realizza un’analisi attuale della realtà. L’autrice è cosciente che non è possibile fare retromarcia e cambiare gli equilibri che la tecnologia svolge nelle nostre vite. La chiave sta senza dubbio nel definire meglio le nostre priorità vitali…ma come? Questo è il vero problema, che può essere però lo  spunto da cui partire per future riflessioni.

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