domenica, Dicembre 22 2024

Se state cercando dei film per riflettere o avviare dibattiti su tematich riguardanti l’inizio vita, quelli che seguono probabilmente fanno al caso vostro… tutti possono essere visti da un pubblico d’età maggiore ai 14 anni.

Unplanned (di Chuck Konzelman e Cary Solomon, 2019)

Da otto anni Abby è la direttrice di una delle cliniche abortista statunitense appartenenti a Planned Parenthood, un’istituzione “sanitaria” statunitense nata per promuovere la “pianificazione familiare e la tutela delle donne”, istituzione finanziata dal Governo americano che è diventata nel tempo un business dell’aborto, ed `stata coinvolta negli ultimi anni in scandali di vendita di tessuti embrionali di feti abortiti.

Eccellente nel suo lavoro, la donna ottiene vari riconoscimenti, tra cui quello di “dipendente dell’anno”.

Convinta di “fare il bene delle donne”, mette a tacere gli scrupoli di coscienza, che spesso la disturbano.

Le sue certezze sul fine umanitario dell’associazione cui appartiene vengono a crollare il giorno in cui il suo capo, Cheryl, espone agli altri membri il nuovo “obiettivo aziendale”: raddoppiare il numero degli aborti.

Abby, che crede di far parte di quella “macchina di morte” (come la definirà dopo) per tutelare la salute delle donne (incentivando l’educazione sessuale e non l’interruzione volontaria di gravidanza) scopre che in realtà dietro all’aborto c’è un vero e proprio business. “C’è chi vende auto, chi vende aborti – dice Cheryl, seccata per le domande pungenti di Abby – è con l’aborto che ti pago le vacanze”.

Un giorno Abby collabora materialmente all’aborto di un feto di 13 settimane, poiché manca l’infermiera di turno: ciò che vede porterà Abby a rifiutare, una volta per tutte, quel mondo

Lascerà il lavoro senza preavviso, affronterà cause in tribunale, sarà insultata e odiata dai colleghi, ma nel cuore troverà una pace mai trovata prima… e riuscirà anche a perdonarsi per aver abortito lei stessa in passato.

Il film, che purtroppo non riesce a rendere la complessità della realtà come fa invece il libro, di cui abbiamo già parlato (e che è stato anche tradotto recentemente in italiano con il titolo di Scartati. La mia vita con l’aborto, ed.) può comunque favorire il dibattito e la riflessione.

In mani sicure (Jeanne Herry, 2018)

Una studentessa porta a termine una gravidanza indesiderata (frutto di una relazione occasionale) e decide di dare il figlio in adozione. Di fronte alla domanda dell’assistente sociale che le chiede: “Cosa vuole per suo figlio?”, risponde:

“Voglio che sia felice, che lo affidino a chi lo amerà, che lo diano a chi magari non ha potuto avere figli”
.

Un messaggio che, dato da una ragazza di soli 21 anni, decisa a “continuare la sua vita senza quel bambino” riabilita con forza la possibilità dell’adozione in un mondo che spesso pone ostacoli a questa opzione, favorendo invece l’interruzione della gravidanza.

Interessante la frase di un’altra assistente sociale ad una coppia cui viene rifiutata l’adozione:

“Il mio compito non è trovare un bambino a dei genitori che soffrono, ma trovare i migliori genitori possibili per dei bambini in difficoltà”
, a indicare che un figlio non è un diritto, ma un essere umano prezioso da custodire.

Lascia tuttavia perplessi il finale del film, che sembra promuovere più l’adozione monoparentale che l’adozione in sé e per sé.

Tutte le coppie candidate risultano infatti inadeguate: solo una donna divorziata risulterà in grado di accudire questo bambino.

L’idea che sia importante per un figlio crescere con entrambe le figure genitoriali non emerge affatto dalla narrazione del film: il che, forse, rispecchia il sentire della nostra società, dove conta sempre più l’individuo, non la coppia, vista come intrinsecamente precaria e soggetta a facili fratture.

Se da un lato il film è molto interessante perché mette in luce la possibilità reale e concreta di non rifiutare una vita di cui non si può avere cura (offrendo spiegazioni su cosa prevede la legge e mostrando che esiste la garanzia di anonimato della donna), dall’altro la storia ci pone inesorabilmente davanti alla crisi che l’istituzione famigliare sta attraversando… Emblematica l’ultima scena, in cui madre e figlio si spogliano insieme e si coricano sul letto matrimoniale: sembra che l’amore di un figlio per una “mamma single” può – serenamente e senza conseguenze – sostituire l’amore per l’uomo…

October Baby (di Jon e Andrew Erwin, 2011)

È un film molto delicato, tratto (in parte) da una storia vera, sul tema dell’aborto. Parla di una ragazza, Hannah, che sopravvive a un’interruzione di gravidanza (perché i medici sbagliano l’intervento) e viene data in adozione. A 16 anni, la ragazza viene a sapere la verità, trova la madre biologica, che però la allontana. Ha un buon lavoro e una famiglia, adesso: non vuole essere “disturbata dal suo passato”.

Soltanto dopo varie vicissitudini, di fronte al perdono della figlia, la donna farà pace con la sua storia.

October baby mostra – senza retorica – quali sensi di colpa e quale imbarazzo ci possono essere (anche col passare del tempo) in una persona che ha abortito. Dall’altro ci mette davanti al senso di abbandono con cui deve fare i conti una ragazza che scopre di “essere al mondo per errore”.

Tuttavia, siamo di fronte a una storia di riconciliazione, non di condanna. Hannah capisce infatti che l’unico modo per vincere il rancore e lo sgomento che ha dentro è il perdono.

La grandezza del film sta nel presentare i fatti con rispetto, nella loro verità e drammaticità, senza però giudicare chi li compie.

Colpisce in particolare un’intervista all’attrice che interpreta la mamma biologica, la quale afferma: “Mi è stato chiesto di svolgere questa parte senza che nessuno sapesse il mio passato, visto che lo avevo nascosto a tutti, perfino a me stessa: io avevo praticato un aborto e recitare questa parte, in questo film, mi ha portato a fare i conti con me stessa. Mi ha portato a chiedere perdono a Dio per qualcosa che avevo rimosso, ma dentro faceva ancora male. E finalmente ho sentito quel perdono, ho trovato pace”.

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