giovedì, Novembre 21 2024

“È ingiusto. La morte spazza via tutto. A che serve allora avere dei sogni?” Sono forse le parole più crude e angoscianti pronunciate in tutto il film “Bianca come il latte, rossa come il sangue”, diretto da Giacomo Campiotti e tratto dall’omonimo romanzo di Alessandro D’Avenia.

E la risposta, che vuole spacciarsi come implicita nella domanda stessa, a prima vista potrebbe sembrarci brutale ma scontata: “A niente, non serve a niente”.

Tale risposta, però, è scontata, sì; a tal punto che, come spesso accade con le risposte scontate, poi si rivela non essere quella giusta. “Ci sono dei sogni che vanno al di là della morte – risponde il professore di lettere al giovane protagonista disperato per la malattia della ragazza amata – Leonardo ha disegnato un elicottero e non l’ha mai visto volare”.

Con la sua malattia e tutto ciò che comporta, con la sua forza e il suo coraggio alternati ad una comprensibile fragilità che ispira tenerezza e invita al conforto, con la sua speranza e le sue parole rivolte a Dio, con le sue riflessioni e i suoi consigli discreti ma mirati, anche la giovane protagonista disegna qualcosa nei cuori delle persone che le sono accanto: e cioè un nuovo modo di concepire e impostare l’esistenza. Insieme al dolore, la ragazza lascia, seppure in germe, qualcosa di preziosissimo a chi le sta vicino.

Il film, che si rivolge ad un pubblico di giovani, per loro natura alla ricerca di risposte e di senso, è senza dubbio l’esempio di una storia che, nonostante debba la sua origine ad un romanzo, sta in piedi benissimo e in forma autonoma anche sullo schermo, senza soffrire per il suo inevitabile adattamento. Il film, che sta al momento letteralmente spopolando nelle sale di tutta Italia, con incassi sopra ogni aspettativa, è in grado di catturare ed emozionare anche chi non avesse precedentemente letto il libro (uscito nel 2010, col Gruppo Mondadori), tradotto (al francese, allo spagnolo, all’olandese o al bulgaro) e distribuito in venti diversi paesi e diventato, nel giro di poco tempo, un best seller internazionale.

Nel film, come nel libro, non si vuole raccontare la storia di una giovane liceale che viene logorata da una leucemia nel fiore dei suoi anni; si vuole piuttosto raccontare la storia di una malattia che, pur seminando sofferenza, diventa strumento per donare alla vita un valore tutto nuovo e soprattutto per far capire cosa sono davvero l’innamoramento e l’amore; concetti, questi, che verranno categoricamente distinti da quello di “passione”.

Innamorarsi, infatti, emergerà lungo tutto il film, non significa ardere o struggersi per qualcuno; non significa perdere la testa, ma trovare un punto fermo, un’ancora di salvezza, che ci aiuti a mettere ordine laddove ci sia il caos e che ci dia pace e sicurezza in mezzo alla tempesta.

L’amore, in generale, è legato alla dedizione, al sacrificio, alle cure, al sostegno, al superamento delle proprie paure per il bene di un altro.

Infine, l’Amore, sembra voler dire il film nel suo complesso, non muore: perché imponendosi in tutta la sua sacralità, supera le barriere della materialità e traccia un cammino, simile a una staffetta, che qualcuno comincia e, andandosene questi, qualcun altro continua a percorrere.

La vera domanda, dunque non è: “A cosa serve sognare, se la morte spazza via tutto?”, ma: “Come può la morte far finire qualcosa che, misteriosamente, proprio attraverso di lei ha preso vita?”

Neppure la giovane protagonista vedrà volare il suo elicottero, ma qualcun altro lo costruirà grazie a lei e anche per lei ci volerà sopra.

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