domenica, Dicembre 22 2024

“Non metto in dubbio che le famiglie con figli disabili possano essere felici, ma chi, potendo scegliere, non vorrebbe un figlio sano e perfetto?”.

Di recente, mi è stata rivolta questa domanda da una persona favorevole alla fecondazione assistita, qualora una coppia rischi di mettere al mondo un figlio malato. Ammetto che, se non avessi conosciuto la storia di Nicola e Giulia Gabella, non avrei saputo smontare punto per punto il suo ragionamento.

Intendiamoci, che “la vita è vita”, sempre e comunque, glielo avrei detto e avrei cercato di spiegare che un figlio non va “creato su misura”, ma accolto, supportato, amato, indipendentemente da com’è e come sta; però, so benissimo che sarei stata poco convincente, essendo mamma di due figli normodotati. E poi perché io stessa, seppur contraria all’aborto e alla fecondazione in vitro per motivi etici, non avrei mai potuto pensare che la croce di un figlio malato potesse essere non solo “accettata”, ma addirittura “amata”; non solo sopportata, ma considerata un’occasione di “ guarigione”.

Eppure, è proprio questo il paradosso che sperimentano e testimoniano con forza questi due coniugi di Bologna, Nicola e Giulia, genitori di tre ragazzi, di cui una segnata da un’importante disabilità: per loro, la malattia è diventata causa di purificazione dell’amore e il deserto si è trasformato in giardino (per riprendere il titolo del libro autobiografico scritto dallo stesso Nicola Gabella, Il deserto diventerà un giardino, pubblicato nel 2011, tramite ilmiolibro.it).

Ma andiamo con ordine. Perché prima di vedere la luce, questa famiglia è dovuta passare per delle tenebre dalle quali sembrava non esistere via d’uscita.

Promessa di felicità infranta

È il giugno del 1996, quando Giulia e Nicola si sposano, innamorati e pieni di gioia. Dopo una prima gravidanza terminata, purtroppo, con un aborto spontaneo, nell’aprile del 1998, la coppia accoglie il piccolo Samuele. La felicità di essere in tre è mgrande, ma i coniugi desiderano ben presto che la famiglia si allarghi ancora. Giulia rimane incinta nuovamente e nell’aprile del 2000 viene alla luce Sara.

Stavolta, però, c’è qualcosa che non va. Fin da subito, i medici si mostrano preoccupati: la bimba dorme sempre, non mangia. Passano i giorni e, dopo molti controlli, risulta evidente che la piccola ha dei deficit considerevoli.

Quello è l’inizio del tunnel. Una famiglia felice sprofonda improvvisamente nel dolore e in una sorta di apatia esistenziale.

Passando da un ospedale all’altro, Nicola arriva persino a sperare che Dio gli porti via quella creatura. Ha pena per lei e per sé, ha paura di non riuscire ad accudirla per il resto della sua vita. La disabilità della figlia paralizza anche lui.

Nel frattempo, viene a mancare la mamma di Giulia: un altro duro colpo, che porta la coppia, già provata, ad allontanarsi sempre di più.

Il loro amore, un tempo rigoglioso, è ora appassito, sopraffatto da pesi troppo grandi.

“Chi, potendo scegliere, non vorrebbe un figlio sano e perfetto?”. A questo punto della storia, Nicola risponderebbe di sì senza pensarci due volte. E, forse, in un raptus di sincerità, aggiungerebbe che lui, quella bimba, non la vuole.

Hanno fede, ma una fede troppo fragile, ancora immatura, che non permette loro di rinnegare sé stessi e accettare che sia un Altro a prendere e trasformare le croci che vivono. Anzi, Nicola è offeso con Dio, si sente tradito ed è tentato di abbandonarlo.

“Il momento più buio della notte, è quello che precede l’alba” (Papa Francesco)
Tuttavia, in questa situazione disperata, vengono messe le radici per un progetto di amore grande, che Giulia e Nicola non immaginano neppure lontanamente.

Un sacerdote molto caro ai Gabella, consiglia loro di andare in Assisi, per confrontarsi con una famiglia “speciale”, quella di Lorenzo e Marusca: due coniugi che hanno adottato un bambino con sindrome di down. La testimonianza di questi ultimi sarà un faro determinante nella vita di Nicola e Giulia.

Da loro imparano che occorre liberarsi di alcuni idoli, per poter amare l’altro veramente. Un genitore, in particolare, deve smettere di vedere il figlio come un prolungamento di sé, come il detentore di tutte le proprie aspettative. Scoprono che un figlio disabile ha più che mai il potere di smascherare un falso amore, perché l’amore vero dà, senza pretese, anche quando l’altro non può “restituire”.

Imparano l’umiltà di chiedere aiuto – a Dio e al prossimo – e scoprono che condividere la fatica è liberatorio per loro e arricchisce le comunità.

Imparano a mettere la coppia al centro, perché è dall’amore coniugale che si origina quello per i figli, non il contrario. Il progetto è sempre sugli sposi: i figli sono conseguenza del loro legame, non causa.

Imparano che non si può sprecare tempo a rincorrere “una vita ideale”, diversa da quella che si ha, perché la felicità vera si origina quando si ama concretamente esattamente nel luogo e nella condizione in cui ci si trova.

È dando che si riceve

Nicola e Giulia riemergono dalle loro macerie e, nel 2003, ecco arrivare un’altra sorellina per Samuele e Sara: Anna, una bambina molto allegra e solare.

L’impegno dei Gabella è notevole: hanno tre figli, il lavoro, devono seguire Sara coi suoi bisogni speciali (la bambina, infatti, passa molto tempo tra logopedisti e fisioterapisti), le fatiche non mancano e a volte neppure lo scoraggiamento, eppure, si sentono circondati da tanto affetto. Inoltre, hanno capito che per essere lieti, anche nelle sofferenze, occorre dare, senza aspettarsi nulla in cambio e generare continuamente “comunità”.

Tanto ne sono convinti, che iniziano ad aprire le porte di casa a quanti hanno bisogno di ascolto e di preghiere; si impegnano nella pratica dell’affido, accogliendo bambini, ragazzi, anziani che vivono situazioni famigliari disagiate (come il figlio di una ragazza sola, una prostituta protetta da un’associazione, una signora anziana poco lucida senza famiglia…).

“Perché proprio voi, che avete già tanti problemi?”, potrebbe chiedere qualcuno. Nicola, assistente sociale di professione, risponderebbe: “Il bene che abbiamo ricevuto è troppo per tenerlo per noi”.

Oggi Sara ha 19 anni. I medici avevano previsto che non avrebbe mai potuto camminare e neppure
parlare
. Tanta è stata la premura dei genitori nell’accudirla e tanti gli stimoli ricevuti in ogni ambiente che ha frequentato, che Sara oggi si esprime da sola, anche se un po’ a fatica, e cammina sulle sue gambe. Si è diplomata, ha un lavoretto, esce con le amiche, ha un suo bancomat personale. Ma non è tutto, perchè Sara ha qualcosa che, purtroppo, pochi ragazzi hanno: tanta gioia di vivere e una gran voglia di fare. Io ho avuto l’onore di conoscerla e posso testimoniare che in sua presenza sono gli altri a sentirsi disabili.

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