venerdì, Novembre 22 2024

L’uso eccessivo di videogiochi può creare dipendenza. A sostenerlo, questa volta, non sono soltanto genitori ed educatori preoccupati per quella che per molti giovani sta diventando più che una mania, ma direttamente l’Organizzazione Mondiale della Sanità che ha inserito il gaming disorder nell’undicesima edizione del manuale diagnostico International Classification of Diseases (ICD). Citato alla voce “disordini dovuti a comportamenti di dipendenza”, l’uso compulsivo dei videogiochi viene considerato come le altre ludopatie, al pari del gioco d’azzardo, accanto alle altre dipendenze già classificate, come la droga e l’alcol. La nuova Icd verrà pubblicata a metà del 2018 (dopo oltre vent’ anni dalla precedente, uscita negli anni novanta), ma, sul sito dell’OMS, è già disponibile il documento dai primi di gennaio.

Il gaming disorder

Che cos’è il gaming disorder? Nella bozza, alla domanda espressamente posta, segue una sintetica e dettagliata risposta: “il disturbo da gioco – si legge nel documento – è definito come un modello di comportamento di gioco (‘gioco digitale’ o ‘videogioco’) caratterizzato da un controllo compromesso sul gioco, priorità crescente data al giocare su altre attività nella misura in cui il gioco ha la precedenza su altri interessi e attività quotidiane, e la continuazione o l’escalation dei giochi, nonostante l’insorgenza di conseguenze negative”. E ancora, “affinché il disturbo da gioco sia diagnosticato, il modello di comportamento – viene precisato – deve essere sufficientemente severo da risultare in una compromissione significativa in ambito personale, familiare, sociale, educativo, lavorativo o di altre aree importanti del funzionamento e normalmente sarebbe stato evidente per almeno 12 mesi”.

La classificazione internazionale delle malattie (ICD) rappresenta la base per l’identificazione delle tendenze e delle statistiche sanitarie a livello globale e, nello stesso tempo, funge da standard internazionale per la segnalazione di malattie e condizioni di salute, una sorta di punto di riferimento utilizzato dai medici e ricercatori di tutto il mondo per diagnosticare e classificare le condizioni dei pazienti.

La decisione di includere il disturbo del gioco nell’ICD-11 si basa sullo studio approfondito delle prove disponibili a livello mondiale ed è il frutto del consenso di esperti delle varie discipline coinvolte nella analisi del fenomeno.

L’inserimento del gaming disorder nella nuova lista delle malattie dell’Oms arriva dopo anni di analisi sul pericolo rappresentato dall’eccesso di gioco tecnologico, sia on line sia off line, a prescindere dallo strumento utilizzato (pc, console, tablet, smartphone). Sono stati portati avanti e pubblicati numerosi studi, svolti in ambito medico, ma anche in quello socio-psico-pedagogico sull’uso e l’abuso di ‘connessione’, per fini ludici, da parte degli adolescenti, degli adulti, ma anche dei bambini. È di un paio di anni fa la ricerca pubblicata dalla famosa rivista Jama Pediatrics, secondo cui i giochi elettronici, nei quali lo scopo è uccidere o razziare, rendono i bambini incapaci di comprendere le conseguenze della violenza.

E, ancora prima, nel 2013 l’ American Academy of Pediatrics aveva rilevato i pericoli dei new media quando l’esposizione e l’uso delle nuove tecnologie da parte dei bambini e ragazzi diventa eccessivo.

Invito alla prudenza senza allarmismi. Qualche buon consiglio

Le ricerche, però, evidenziano anche che il disturbo interessa solo una piccola percentuale di persone che si dedicano alle attività di gioco digitale o di videogiochi. Ma invitano, in un certo senso, chi ne fa uso, ad una attenzione maggiore rispetto alla quantità di tempo che si trascorre giocando, in particolare quando questo comporta l’esclusione di altre attività quotidiane, o si notano cambiamenti nella salute fisica e psicologica e nelle relazioni sociali che potrebbero essere attribuiti proprio al loro modo di giocare.

Nessun allarme quindi, ma attenzione, invito alla prudenza per i giocatori, questo sì. E, per i medici, soprattutto per quelli già impegnati sul campo, un ulteriore passo avanti per quanto riguarda la diagnosi, la cura e la prevenzione del disturbo, che potrebbe beneficiare di un approccio condiviso, dello scambio di dati e statistiche, dell’elaborazione di programmi di studio e ricerche ad ampio raggio.

A preoccupare, deve essere l’addiction, l’eccesso, la smania di voler giocare a tutti i costi, una sorta di istinto irrefrenabile, come quello che purtroppo, può colpire molti che, letteralmente presi, catturati dal gioco, finiscono per perdere il contatto con la realtà. Ragazzi come tutti che giocano per ore e ore, anche fino a tarda notte, alla ricerca del videogioco più moderno e tecnologico.. Secondo alcuni il ritiro sociale è causato spesso da genitori eccessivamente apprensivi che preferiscono non far uscire i propri figli, per pigrizia e per averli sotto controllo, o per paura di quello che c’è fuori. Mentre, nel caso dei bambini più piccoli, il videogioco fa un po’ da baby sitter, e sta finendo per sostituirsi alla televisione. Per i più grandi, invece, la ‘rete’ diventa spesso l’unico spazio di socializzazione, e il gioco multimediale virtuale si sostituisce alla vita reale. L’invito, rivolto ai genitori, è allora quello di trascorrere più tempo con i propri figli . E’ stato osservato, infatti, che anche la dipendenza da videogioco si sviluppa in quelle personalità già molto fragili che vivono situazioni di disagio dovute spesso ad una vera e propria assenza dei genitori, se non esplicitamente vissuta, quantomeno percepita come mancanza di condivisione, assenza di attenzioni. In sostanza, spesso, la dipendenza da videogiochi rappresenta l’effetto della difficoltà dei genitori a relazionarsi con i figli e che può generare isolamento sociale, più o meno grave, più o meno legato alla dipendenza da videogiochi. Questo è quello che avviene, nei casi più estremi, in Giappone dove si registra un numero altissimo di hikikomori, gli adolescenti che rifiutano il mondo e si chiudono in camera, evitando ogni contatto con la realtà circostante, incollati a internet e spesso anche ai videogiochi, un fenomeno di cui abbiamo già parlato nel nostro portale.

La vera sfida non è proibire ma educare

I videogiochi non vanno demonizzati ma piuttosto controllati.

Il consiglio potrebbe essere quello di immaginare impresso, sulla scatola che lo contiene la frase: ‘maneggiare con cura’, quella cura che serve, ed è utile, in tutti i processi educativi e formativi, nelle varie fasi di sviluppo della persona e della sua personalità. Il videogioco è in grado di offrire anche numerose opportunità.

E allora è proprio da questi nuovi studi che è possibile ri-partire per un’analisi dei videogiochi che tenga in considerazione potenzialità e pericoli, e aiuti educatori e genitori a farsi da mediatori culturali di un processo, ludico, ma anche di apprendimento, funzionale ad un uso adeguato e consapevole, in maniera minore o maggiore a seconda dell’età del giocatore/fruitore, di un mezzo tecnologico che è entrato a far parte della nostra quotidianità. Perché, e tanto gli studi, quanto l’analisi clinica lo dimostrano, il rischio che si passi dall’uso all’abuso di videogiochi dipende anche dalla relazione che i giovani riescono ad instaurare con il gruppo dei pari e con gli adulti di riferimento, dal controllo consapevole da parte dei genitori per quanto concerne i bambini, dallo stato di insoddisfazione, disagio, quando si tratta di soggetti non più giovanissimi per i quali il gioco si trasforma da momento di svago in occasione di fuga dalla realtà.

I game studies, inoltre, in qualche modo invitano a considerare i videogiochi non più soltanto come un mezzo di intrattenimento, ma come uno strumento capace di produrre molteplici linguaggi e stili comunicativi, per i quali, quindi, specialmente secondo alcuni studiosi (Bissel) la dimensione narrativa ed espressiva, più che il loro aspetto formale, tecnico, eminentemente ludico, dovrebbe risultare preponderante. Per la portata innovativa dell’esperienza e per la sua valenza etica, un progetto didattico dedicato ai videogiochi, realizzato all’università Francisco de Vitoria di Madrid da Arturo Encinas Cantalapiedra e Alberto Oliván Tenorio, ha ottenuto una menzione speciale nella prima edizione del premio Razón Abierta, indetto dalla Fondazione Ratzinger. “La enseñanza de la Narración en Videojuegos o cómo relatamos nuestra vida a través del videojuego”, è un corso che mira a guidare i futuri progettisti di videogiochi nel loro lavoro professionale, sia dal punto di vista tecnico che dal punto di vista della verità poetica delle creazioni audio-visive. Si tratta di un percorso pensato per la formazione di esperti del settore che riescano a elaborare videogiochi attraenti e coerenti con principi e valori che partano innanzitutto dal rispetto della persona, di quella che fruisce e interagisce con il gioco, ma anche di quella, eventualmente rappresentata.

Previous

Sempre più digitali, sempre più social. Ecco cosa ci rivela il rapporto di We Are Social e Hootsuite

Next

Da Amazon a Ebay: il lato oscuro dei giganti dell’e-commerce

Check Also