venerdì, Novembre 22 2024

Alzi la mano chi, almeno una volta, insieme ai propri familiari non ha provato una profonda solitudine scoprendosi altrove rispetto al resto della famiglia. Una scena, al di qua dello schermo, diventata oggi alquanto ricorrente, paradossalmente “familiare” potremmo dire, nelle nostre case, come suggerisce l’amara ironia della vignetta di Faro in copertina: un padre che, desolato e sconfortato, rimpiange i “vecchi tempi” in cui tutta la famiglia si raccoglieva almeno intorno alla stesso schermo. Oggi, con le nuove tecnologie e le nuove forme di comunicazione e intrattenimento assistiamo a una vera e propria frammentazione dell’ascolto dell’audience e della comunicazione familiare. Anche a tavola, durante l’ora di cena. E, il padre di famiglia della nostra vignetta, sembra stare lì a volerci dire che così proprio non va. Dello stesso avviso è il professor Carlos Cachán, docente di Giornalismo e Comunicazione Istituzionale all’Università Nebrija di Madrid, e autore di un suggestivo articolo sulla natura della comunicazione televisiva e i suoi effetti in ambito educativo e scolastico, dal titolo.La natura della televisione rende difficile una comunicazione di qualità. Per presentarlo ai lettori di Family&Media partiremo dalle parole chiave scelte dallo stesso autore e che precedono il testo si come si fa quando si pubblicano articoli su riviste specializzate.

Del resto è proprio dalle parole che tutto ha avuto inizio ed è da lì dove tutto deve sempre, necessariamente, ricominciare. In principio era il Verbo, disse un giorno qualcuno che di certo la sapeva lunga. Natura della televisione – contenuti – tempo – recettore – veridicità – comunicazione di qualità. Di questi sei termini ne prenderò in consegna due – televisione e comunicazione – e ne introdurrò altri tre, che considero altrettanto «chiave» nel ragionamento del professor Cachán: idea, video, educazione.

Sappiamo benissimo che cos’è una televisione. Altrettanto bene sapremmo spiegare che cos’è la televisione. Ma ci siamo mai soffermati sul significato della parola televisione? Letteralmente vuol dire “visione da lontano” o “visione a distanza”, dove quel tele che ritroviamo dal telescopio al telefonino passando per il telegrafo, evoca proprio questa idea di lontananza. Vedere la TV quindi è un’esperienza che porta il nostro sguardo necessariamente lontano, altrove. Proprio quello che sembra lamentare lo sconsolato padre della vignetta di Faro al quale, per rimediare alla frammentazione del dialogo durante l’ora di cena, potrebbero essergli utili alcuni consigli per favorire la comunicazione in famiglia.

Ma torniamo al “vedere”. Nello Spagnolo colloquiale quando si vuole esprimere accordo con l’idea di qualcun’altro, capita spesso di sentir dire lo veo, lo vedo. Già, perché prima di essere pensata un’idea è innanzitutto, e letteralmente, vista. Difatti, la sua antichissima origine indoeuropea, idêin, vuol dire proprio “vedere”, affermatasi poi in greco con il significato che conosciamo oggi. Ancor più affascinante, a mio avviso, è la continuità semantica esistente tra le parole idea e video, quest’ultima che altro non è se non la sostantivizzazione del presente del verbo latino videre, ed equivale al nostro “io vedo”.

A questo punto sorge spontaneo chiedersi: cosa succede alle nostre idee, dove vanno a finire, mentre vediamo la televisione? Proviamo a immaginare di chiedere a qualcuno a cosa sta pensando mentre è assorto nel seguire un film o un reality show. Fatta eccezione per i telespettatori più critici e attivi, qual è la risposta più ovvia che ci aspettiamo? “A niente”, o “a quello che sto vedendo”. Tradotto, le sue idee al momento tendono a sospendersi o ad allinearsi con quelle del discorso (logos) veicolato dal video.

In principio era il Verbo, disse un giorno qualcuno. Molto più recentemente, e non a caso, qualcun altro che la sapeva altrettanto lunga in quanto a parole, definì i mezzi di comunicazione di massa come “apparati ideo-logici dello Stato”. Forse avevano ragione entrambi. A buon intenditor… Poche ma preziosissime parole, dunque, – televisione, idea, video –, la cui relazione semantica è per così dire il nocciolo duro intorno al quale ruota la riflessione del professor Cachán che, con sapienza argomentativa e una ricca bibliografia di sostegno, ci guida alla scoperta di come «l’attuale predominio e influenza della TV e la sua natura […] rendono difficile lo sviluppo di una comunicazione di qualità all’interno del processo di insegnamento». Si tratta di un saggio teorico che offre numerosi spunti di riflessione sui mezzi di comunicazione e sulla televisione in particolare, oltre a valide citazioni di studi e opere di diverso orientamento disciplinare (dalla psicologia, alla pedagogia, dalla scienza della comunicazione alla letteratura). Inoltre, l’autore offre numerosi dati statistici comparati in merito al consumo di televisione da parte dei bambini tra i 6 e i 12 anni, con un’attenzione particolare agli effetti che esso provoca sui processi di apprendimento, oltre che sulla comunicazione di qualità nel contesto scolastico. Ma cosa intende Cachán per “comunicazione di qualità”? Citando Alberto Gil, la definisce come quella comunicazione caratterizzata dal rigore argomentativo, dal rispetto per l’altro, dall’interesse per aiutare, dal rifiuto della vanità, dell’adulazione e del pragmatismo che ricerca esclusivamente il proprio interesse al di sopra di tutto e a qualsiasi costo. «L’educazione di qualità in ambito educativo» – prosegue Cachán – «esige che il discorso del professore sia efficace e riesca a muovere i suoi alunni e motivarli all’azione». Se fin qui concordo pienamente con Cachán, dissento da lui quando, appena dopo, sostiene che la comunicazione tra insegnante e alunno deve prescindere da un linguaggio emotivo (che è proprio della comunicazione televisiva), e che sempre l’insegnante deve far uso di un discorso persuasivo basato sul ragionamento e volto alla ricerca di prove, esempi e dati che avvallino gli argomenti presentati. Chiarisco di seguito le ragioni del mio dissenso.

Se ci soffermiamo un attimo sull’etimologia delle parole segnate in corsivo, scopriamo che “motivare” ed “emozionare” hanno la stessa derivazione latina: entrambe, infatti, rimandano a mòtus, participio passato del verbo mòvere, “muovere”. Ma più nello specifico, “emozionare” deriva da emovère, dove il prefisso e- insiste sulla direzione di tale movimento da dentro verso fuori. Pertanto, “emozionar(si)” significa letteralmente “muover(si) verso fuori”. Per questo le emozioni si realizzano pienamente nel momento in cui vengono espresse, perché si muovono verso fuori, mentre sono destinate a generare frustrazione quando, al contrario, scegliamo di tenerle dentro, di reprimerle. Adesso, per chiudere il cerchio del ragionamento, mettiamo in relazione questa coppia di significati – motivare ed emozionarsi – con la nostra ultima parola chiave, “educare”. Essa viene da latino ex-ducere che significa “portare da dentro” o “portare verso fuori” e che, contrariamente a ciò che siamo soliti pensare e fare genitori e insegnanti, dovrebbe essere la principale missione di ogni buon educatore. Questi, difatti, è colui che sa tirar fuori ciò che «già risiede mezzo addormentato nell’albeggiare della conoscenza», come diceva il Profeta Khalil Gibran. Un buon maestro è chi sa far emozionare i propri alunni e far sì che affiorino le loro inquietudini emotive. Per dirla con un grande pensatore spagnolo, Miguel de Unamuno, «il vero maestro di scuola è colui che leggendo sappia far piangere, e ridere, e sentire, e immaginare, e pensare i suoi pargoli». Questo ci porta a credere fermamente che per essere motivante un’educazione deve essere emozionante, oltre che emozionata.

Quest’ultima considerazione, tuttavia, non toglie nulla alla validità complessiva dell’articolo in cui l’autore riesce ad esprimere tutta la complessità dei temi trattati con un linguaggio semplice e assolutamente fruibile. Un ottimo contributo per la comprensione dei fenomeni mediatici. Un utile compendio di strategie per qualunque genitore o insegnante voglia riorientare il proprio lavoro di educatore e migliorare la comunicazione con i propri figli e alunni. A tal proposito, suggerisco anche la lettura del nostro articolo, Televisione, famiglia e infanzia: la tv non sia una “baby sitter”.

Vale davvero la pena dedicargli un po’ del vostro tempo… per riaccendere qualche lampadina… spegnendo qualche altra “luce” di troppo.

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