domenica, Novembre 24 2024

Lo sviluppo dei nuovi media digitali (specialmente Internet e telefoni mobili), esige una nuova mediazione educativa da parte dei genitori, differente da quella utilizzata con la televisione.

Lo sostiene Lynn Schofield, professoressa associata all’Università di Denver, nel suo studio sulla Parental Mediation (“Parental Mediation Theory”, in Communication Theory, vol.21, 2011, pp. 323-34).

I genitori, oltre a orientare le relazioni che i figli stabiliscono con i nuovi media, condividono ed imparano nuove conoscenze, dato che anche per loro ci si muove su un terreno in permanente cambiamento che colpisce profondamente la famiglia, non solo per quanto riguarda l’impatto dei contenuti ma anche per le relazioni familiari.

Secondo l’autrice, agli inizi, prima dell’era digitale, gli studiosi erano interessati ad analizzare le modalità sviluppate dai genitori per tentare di mitigare gli effetti dei media sui propri figli. In questo contesto, oltre a suggerire di limitare il tempo di permanenza davanti alla televisione e studiare con attenzione il modo in cui i programmi modellavano i desideri dei bambini verso i prodotti commerciali, gli specialisti notarono l’importanza del ruolo dei genitori come agenti nella socializzazione dei figli nell’uso dei media. Gli esperti incominciarono ad utilizzare il termine “parental mediation” per esprimere quel ruolo essenziale che i genitori avevano nella gestione e nella regolazione delle esperienze dei propri figli con la televisione.

Ma Schofield sostiene che la teoria della Parental Mediation ha alcuni limiti. Questa teoria è, a suo giudizio, un ibrido di una teoria della comunicazione che, benché radicata primariamente sugli effetti sociologici e psicologici dei media, incorporava come punti di appoggio l’importanza della comunicazione interpersonale tra genitori e figli. Il primo limite di questa teoria è il suo forte legame ad una tradizione di ricerca sugli effetti dei media dove gli studiosi tendono a concentrarsi sugli effetti negativi che i media stessi hanno nello sviluppo del processo cognitivo dei figli, dimenticando altre modalità usate dai genitori per obiettivi educativi e famigliari positivi, non direttamente relazionati coi media. Inoltre, sostiene l’autrice, viene prestata poca attenzione alle pressioni sociali che subiscono i genitori sul modo in cui devono esercitare il proprio ruolo di mediazione, un aspetto che è molto importante. Il secondo limite di questa teoria è che prestava poca attenzione al periodo dell’adolescenza, dove le relazioni tra genitori e figli cambiano notevolmente. Un terzo limite è che i ricercatori si sono orientati fondamentalmente verso la televisione perché era il mezzo che aveva acquisito maggiore forza sociale, ma i cambiamenti attuali richiedono di ampliare l’oggetto di studio. È necessario approfondire come questa teoria potrebbe applicarsi in relazione ai nuovi media digitali, computer, telefoni mobili o altri strumenti in grado di offrire programmi, giochi, informazione, intrattenimento…

Gli studi precedenti sulla mediazione educativa dei genitori consideravano tre modi di esercitarla:

a) Mediazione attiva (active mediation): implica le frequenti conversazioni e scambio di impressioni che i genitori realizzano con i propri figli sul contenuto di quello che vedono in televisione. È il più efficace perché sviluppa la capacità di giudizio autonomo e senso critico e diminuisce l’impatto dei contenuti negativi di alcuni programmi, oltre ad accrescere l’interesse verso l’uso dei media sui temi pubblici. Questa mediazione ha effetti positivi che vanno oltre l’impiego dei media perché sono vincolati ad obiettivi essenziali della famiglia in sé: riducono i conflitti familiari, generano maggiore stabilità e favoriscono la socializzazione e le relazioni interfamiliari.

b) Mediazione restrittiva (restrictive mediation): suppone l’imposizione di alcune norme e regole nell’utilizzo della televisione da parte dei bambini. Gli studi mostrano che esiste il rischio di generare una certa tensione nella relazione con i genitori o la stimolazione di un desiderio per conoscere quello che viene proibito. Le regole non sembrano essere un elemento educativo in sé perché quello che è importante è che i minorenni incorporino internamente dei criteri, per agire in futuro in modo conforme ad essi.

c) Mediazione di presenza (co-viewing): è uno dei più frequenti, vicino alla prima, e consiste nel condividere l’uso dei media senza intervenire.

Sebbene queste siano le tre forme di mediazione più frequente segnalate da alcuni autori, è necessario evidenziare che molti genitori ed educatori rinunciano al proprio ruolo di mediazione o non l’esercitano. Tra i possibili motivi, alcuni studi suggeriscono che i genitori tendono a sopravvalutare l’influenza che i media hanno in altri bambini e a sottovalutare invece l’influenza che esercitano sui propri figli. È frequente che un padre veda suo figlio più maturo rispetto ai suoi coetanei e con maggiore capacità di sviluppare progressivamente un criterio di giudizio autonomo sui contenuti dei media.

Inoltre, i figli sempre più spesso passano il tempo con i media elettronici e meno con i genitori, pertanto risulta importante determinare i contesti dove si produce la mediazione.

Per trovare i modi attraverso cui correggere questi limiti, la professoressa Schofield, riprende alcuni studi etnografici sul contesto familiare nel quale si produce la relazione con i media (con le conseguenti implicazioni nell’organizzazione del nucleo familiare e nelle relazioni tra i membri: orari di coincidenza, temi, criteri..). Analizza anche recenti studi nel campo della sociologia delle emozioni e delle relazioni tra adulti e bambini, e nel campo dell’apprendistat situazionale. Questi studi si propongono di dedicare una maggiore attenzione alle necessità che i bambini hanno verso i propri interessi, vedendo la mediazione da questa prospettiva.

Come conclusione, l’autrice propone di aggiungere un quarto modello, il “participatory learning” o “apprendistato participativo” che tiene conto dei recenti avanzamenti della sociologia. L’apprendistato participativo, difende l’autrice, sarebbe una quarta strategia che potrebbero usare i genitori per educare i figli tenendo conto dei nuovi media. In questo modo si eviterebbero modalità di mediazione che sarebbero efficaci solo con i media tradizionali, come la televisione, ma non con gli attuali. Questo implica un cambiamento nel modo di educare. Comporta lo sviluppo di un atteggiamento nuovo nel quale anche i genitori si formano; un atteggiamento che implica la conoscenza dei media e dei propri figli, facendone un uso comune. I figli possono trovare pericoli nelle nuove tecnologie ma possono sviluppare anche nuove capacità, fortificare relazioni personali, generare creatività individuale ed in gruppo, e perfino acquisire conoscenze.

L’articolo è interessante per chi desidera trovare argomenti scientifici sul modo di educare i figli all’uso dei media. Il limite è che non si offrono orientamenti pratici, solo teorici. Inoltre, non si segnala esplicitamente che la possibile rinuncia dei genitori ad avere un ruolo attivo nell’educazione potrebbe avere anche un altro motivo: i cambiamenti prodotti nei media sono tanto grandi e costanti che si sentono poco preparati per offrire un’orientamento ai propri figli. Come risolvere questo problema?

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