venerdì, Novembre 22 2024

Secondo i dati statistici forniti, prima del Natale 2010, dalla clinica  ginecologica Mangiagalli di Milano, una puerpera su cinque sceglie di non dichiarare il nome del padre. Il numero si è triplicato in tre anni: da 474 casi nel 2008 a 1.298 nel 2010. Per commentare il fenomeno di «un vero e proprio boom di madri single», La Repubblica (22.12.2010, p. 25) ha pubblicato una breve intervista a Eva Cantarella, scrittrice e docente di diritto romano e diritto greco all’università di Milano.

Il tema dell’intervista si è incentrato sulle brevi e incisive parole del titolo, che ritornano nelle prime frasi del testo: « È la vittoria dell’indipendenza femminile». La madre senza il padre al fianco viene presentata come un fatto «positivo», un segno della «vittoria» e un simbolo dell’«indipendenza femminile». Assecondando questo punto di vista, le madri single non sono più etichettate come le vittime degli uomini spaventati dal carico della responsabilità genitoriale, ma come le conquistatrici dell’indipendenza nella battaglia contro il maschilismo. Al contempo, il padre viene ridotto al mero «strumento per arrivare alla maternità». La presenza maschile nella famiglia risulta così non necessaria. Il padre è «superfluo». La sua assenza non è un problema o un danno. Per argomentare e giustificare la sua posizione, Eva Cantarella afferma che «a volte, in certe famiglie, i padri ci sono ma solo sulla carta. Di fatto, non esistono».

Il contenuto dell’articolo è fortemente ancorato ad un luogo comune culturale (tòpos), di matrice femminista, che si identifica con la virtù sociale che si oppone all’ingiustizia, vale a dire la rivendicazione (vindicatio). In questo caso le donne si prendono la rivincita sulla tradizionale dominanza maschile. Le donne si considerano vittime, e dunque devono lottare per i propri diritti, primo tra tutti l’indipendenza femminile dall’universo maschile. Questa lotta si traduce “automaticamente” in una lotta contro la figura paterna e, di conseguenza, l’assenza del padre è considerata una conquista sociale. Un controvalore viene prospettato quindi come un valore.

Questo è solo uno degli aspetti dell’analisi sull’argomento paternità operata dallo studio intitolato L’immagine del padre di famiglia nella stampa italiana, discusso, tra l’altro, come tesi di licenza nella Pontificia Università della Santa Croce in Roma. L’autore ha analizzato il modo in cui due dei principali quotidiani italiani, il Corriere della Sera e La Repubblica, affrontano il tema della paternità.

Il padre ridotto a un fatto di cronaca, ma non così cattivo come nelle fiction

Lo studio, già nella sua parte descrittiva, rivela alcuni dati significativi. Il tema del padre di famiglia è onnipresente in modo permanente sulle pagine dei due quotidiani citati. Gli articoli selezionati ed analizzati sono 153 (72 del Corriere della Sera e 81 de La Repubblica). Durante il periodo nel quale è stata condotta l’analisi, solo in tre uscite quotidiane non è stato rinvenuto materiale sul tema, per il resto la figura paterna compare, in media, in più di 2,5 testi al giorno. È interessante, inoltre, notare come questo argomento emerga in rubriche differenti: da “Esterni” a “Interni”, da “Economia” a “Lettere”, da “Cultura” a “Sport”. Questo dato è particolarmente significativo, e rivela che la paternità è un tema “naturale”, legato in modo fisiologico e inscindibile all’essere umano, riguarda la sua vita e la sua storia.

Il padre di famiglia è, in quasi la metà degli articoli analizzati, protagonista di fatti di cronaca, il più delle volte drammatici. Tuttavia non sempre ne viene restituita un’immagine negativa; al contrario, di solito, la figura paterna assume tratti commoventi, quasi melodrammatici, tali da far ritenere che se ne esaltino gli aspetti emozionali più comuni e superficiali, tralasciando una reale analisi dell’individuo.

Del tutto negativa è, in ogni caso, la caratterizzazione della paternità operata da numerose e varie opere artistiche commentate sulle pagine di entrambi i quotidiani. Se, da una parte, la quantità dei testi analizzati nelle rubriche culturali (relative al 20% del materiale complessivo) è indice dell’importanza e dell’attualità dell’argomento paternità nell’ampio e variegato campo della cultura contemporanea (films, libri, opere teatrali e musicali), dall’altra, la crisi attuale della paternità emerge in modo evidente dal tenore negativo continuamente attribuito al padre dalle diverse produzioni artistiche. L’arte potrebbe rivelarsi, in questo caso,“specchio della realtà”, oppure, più semplicemente, potrebbe affermarsi che scrittori e registi focalizzino la propria attenzione su temi particolarmente drammatici e conflittuali, per poter facilmente attirare il lettore o per lo spettatore.

La figura del padre viene presentata nei due quotidiani italiani in modo relativamente simile. In entrambe le testate, l’argomento è affrontato da vari e diversi giornalisti (151 articoli firmati scritti da 114 autori),dunque all’interno delle redazioni del Corriere della Sera e della Repubblica non c’è un giornalista in particolare che si occupi in modo quasi esclusivo ai temi della paternità o della famiglia. Alcune similitudini tra le due testate giornalistiche riguardano altri aspetti: il numero degli articoli, le tendenze dei tipi e dei generi del testo, le percentuali dei frame positivi e negativi, e la presenza delle “radici antropologiche della socialità”, cioè delle virtù sociali che sono alla base di tutti i frames possibili.

Certamente più interessanti e rilevanti sono i dati dell’analisi relativi al “non detto”. L’informazione sul padre di famiglia è spesso connotata da un frame negativo. Mentre l’inquadramento negativo si trova nel 53% dei testi, il frame positivo nel 44% degli articoli e quello neutrale solo nel 3% dei casi, ad attestare il fatto che il padre è una persona verso la quale “per natura” non si può essere neutrali.

Nel 51% dei casi analizzati il tema della paternità è presente come cornice principale del testo, nel restante 49% è presente nel frame secondario. Nel primo caso la figura paterna presenta più spesso connotazioni negative (60%), mentre, se analizzata nel frame secondario, è, nel 57% dei casi, di matrice positiva. Il dato è comprensibile, perché i frame secondari sono meno consoni alla negatività e alla conflittualità (elementi della notiziabilità) o all’ideologizzazione, quindi il protagonista ha spesso una connotazione positiva. Il ruolo del padre è esplicitamente sminuito o addirittura disprezzato, nel caso in cui la notizia riguardi due questioni contemporanee “calde”: il femminismo e l’omosessualità.

Non a caso, quindi, la figura del padre è onnipresente in modo permanente sulle pagine dei due principali quotidiani italiani, perché si tratta di una figura con forti radici antropologiche. Il tema della paternità, così come emerge dalla stampa quotidiana, è legato a tutte e nove le virtù antropologiche della socialità, anche se quantitativamente in modo differente.

La più frequente radice sociale è la pietà, cioè l’inclinazione verso le relazioni fondamentali, cioè fondanti, per ogni essere umano: la relazione con Dio, con i genitori e con la patria, che si trova nel 45% dei testi analizzati (per la maggior parte nell’aspetto familiare). Si tratta di un’evidente affermazione del naturale legame paterno-filiale, con connotazioni positive, perché in circa due su tre casi, la pietà è presente nella sua forma autentica, cioè come virtù. Al contrario, nel caso dell’affabilità, presente in 24 testi, emerge un vero e proprio prevalere dei vizi sulle virtù: l’inclinazione a far dono di sé in tre casi su quattro è sottoposta ad un’ottica deformante. In 20 dei casi analizzati nei quali emerge la liberalità, cioè la tendenza a donare ciò che si possiede, alla quale di solito viene associata l’affabilità, prevale la forma autentica: in due casi su tre è presente come virtù. In questo modo l’analisi del “non detto” sul padre di famiglia nella stampa italiana rivela una dominante tendenza di matrice consumistica: è più facile dare ciò che si ha, piuttosto che dare ciò che si è.

Qualcosa di simile accade alle altre virtù sociali, la cui analisi tralascio ora, e ne offro solo i risultati globali. In totale la quantità delle radici sociali presenti come vizi (52%), prevale su quella delle virtù (48%), il che corrisponde con la proporzione di prevalenza del frame negativo su quello positivo.

Lo studio non solo ha argomentato la “permanente onnipresenza” della paternità, anche se legata per lo più a fatti di cronaca, ma ha anche attestato la validità della proposta metodologica del gruppo di ricerca Famiglia e Media ed il risultato cui conduce nell’esame delle notizie giornalistiche riguardanti l’argomento della paternità. Bisognerà certo verificare la presenza della figura paterna in campioni più estesi di testi giornalistici, ma già questa prima analisi, sta a indicare il forte radicamento antropologico e sociale della paternità nonostante i tentativi ideologici di sminuirne il ruolo.

Metodologia dell’analisi

Nella prima tappa dello studio sono stati selezionati gli articoli pubblicati nei due quotidiani italiani nel mese di dicembre 2010, in cui la figura del padre di famiglia è stata presentata in modo esplicito (di solito con le parole “padre”, “papà”, “genitore”, “figlio” o “figlia”). In seguito, i testi selezionati sono stati analizzati secondo un metodo d’analisi proposto dal gruppo di ricerca Famiglia e Media. In questo modo, esaminando il frame, cioè l’inquadramento con il quale l’informazione viene presentata, poi il tòpos, cioè il luogo comune naturale o culturale dove l’autore del testo cerca di incontrarsi con i lettori, e finalmente le virtù sociali, cioè le nove radici antropologiche della socialità presenti nella loro forma autentica o deformate, si cercava di scoprire non solo il “detto” ma anche e soprattutto il “non detto” sul padre di famiglia nella stampa italiana.

Sono rimaste almeno due questioni aperte che richiederanno successive ricerche: in seguito ad un’analisi di lungo periodo, ovvero su un campione più ampio, l’immagine del padre di famiglia sarebbe la stessa? Le conclusioni dello studio valgono anche per la stampa internazionale o riflettono soltanto i tratti della cultura giornalistica italiana?

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