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Recensione del libro di Tom Bissell, Voglia di vincere (Perché i videogiochi sono importanti), trad. it., ISBN Edizioni, Milano 2012, pp.240, €19,90

Siamo i responsabili della nostra arte. Storicamente l’uomo ha sempre trovato i mezzi per esprimersi, lungo la strada che dalle pendici dell’operoso artigianato sale ripida fino ai capolavori inimitabili del genio, fin da quando nel buio delle caverne qualcuno si dava da fare con selci appuntite e colori ricavati da erbe e fango.

Scoprire come la tecnica aiuti o modifichi l’arte è molto interessante, specie in una stagione della storia in cui l’apporto tecnologico si è fatto sempre più consistente. All’alba dell’avvento dei personal computer un’inchiesta del Times Litterary Supplement dimostrò con prove fattuali che gli scrittori, passando dalla macchina per scrivere al “word processor”, avevano impresso notevoli e inconsapevoli cambiamenti al loro stile di scrittura. Il più vistoso era l’abbreviarsi delle frasi e dei periodi, indotto dalla necessità di dominare la prosa entro un arco di testo – quello che appare nella finestra dello schermo – sensibilmente più ridotto rispetto al foglio scritto. Pochissimi degli scrittori intervistati avevano notato questo cambiamento, che testimonia la verità dell’intuizione di Marshall McLuhan: il mezzo è davvero il messaggio, nella misura in cui facendosi presente influisce non solo su come comunichiamo ma sulla realtà stessa di quel che comunichiamo.

Il videogioco – termine restrittivo, che tuttavia adottiamo per chiarezza – è l’emblema stesso delle potenzialità che una tecnologia assai potente e versatile offre alla fantasia umana. È una forma di espressione interattiva che, per la prima volta nella storia (valendosi delle peculiarità dell’elettronica e del personal computer), introduce modelli di comunicazione non lineari e non passivi per i destinatari: diversamente da un testo scritto o da un audiovisivo tradizionale, la partecipazione richiesta prevede opzioni attive e fruizioni soggettive che configurano il “racconto” a seconda delle concrete preferenze di ciascuno. Niente più lettori o spettatori, bensì “inter-attori”, compartecipi della forma che il testo va assumendo. Chi gioca “fa” la propria storia non meno di chi l’ha creata.

Il linguaggio dei videogiochi è esattamente lo stesso che utilizziamo navigando in un sito web e nell’internet: alberi di link e connessioni di significati disponibili alla scelta. La differenza sostanziale, tuttavia, è che i videogiochi hanno adottato questo linguaggio assai prima che il web esistesse – Tim Berners-Lee mette online il primo sito nel 1991, quando i videogiochi possono vantare già vent’anni di esistenza – e lo usano in maniera assai più sofisticata, con una multimedialità più matura in cui testi, immagini, colonna sonora e significati si integrano e si arricchiscono reciprocamente.

Inoltre, va da sé, quel particolare tipo di ipertesti che sono i videogiochi hanno sviluppato una vera e propria cultura linguistica – con grammatiche, sintassi e vocabolari adeguati – al servizio della proprie dimensione ludica: trattandosi di intrattenimento, hanno saputo raggiungere ed educare a loro modo un vasto pubblico che ha continuato a crescere negli anni. Oggi, in Italia, una famiglia su due possiede videogiochi e il fatturato annuale del settore supera il miliardo di euro. Non si può certo valutare questo fenomeno come un accessorio: non si tratta di giocattoli, né tantomeno di trascurabili trastulli evasivi. I videogiochi sono importanti, in quanto industria producono un prepotente impatto collettivo e personale sul quale fin qui si è indagato troppo poco.

Se si legge Extra lives di Tom Bissell – libro del 2010 tradotto in italiano col brutto titolo Voglia di vincere – si ricava finalmente in un colpo d’occhio unitario un panorama spettacoloso, intrigante e inquietante, che ha a che vedere con i videogiochi ma ancor più con le persone che giocano. Il titolo originale fa riferimento alla differenza più sostanziale che esiste tra la vita vera e le sue simulazioni messe in scena nei videogiochi. In tutti i casi, quale che sia la trama, il giocatore è protagonista attraverso un proprio avatar (termine ormai popolare dopo il film di James Cameron), il personaggio che bisogna manovrare e in cui ci si immedesima per procedere nel gioco. Per quanto realistica possa essere la simulazione, giunge un momento in cui ci si accorge immancabilmente che si tratta di una finzione: è proprio il momento in cui il personaggio sbaglia e “muore”. Nel gioco infatti, diversamente dalla vita, la morte è soltanto un passo falso da cui si torna indietro senza difficoltà, per ricominciare e ritentare finché non si possa proseguire oltre.

In alcuni dei primi videogiochi, infinitamente più scarni nell’apparenza ma non così diversi da quelli odierni quanto a linguaggio e struttura, non soltanto si risuscitava dopo ogni morte ma addirittura si potevano guadagnare “vite extra” nella misura in cui il punteggio saliva. Dal punto di vista concettuale quelle extra lives erano un dono straordinario, regalavano un’immortalità ludica e tecnologica che consentiva di inoltrarsi nel gioco fino a livelli, appunto, sovrumani, ottenendo punteggi che altrimenti non sarebbero stati raggiungibili.

Bissell ha adoperato questa situazione come metafora dell’intera realtà dei videogiochi e sostanzialmente ha avuto ragione, perché essa è molto fertile anche in alcune deduzioni potenziali che nel volume restano implicite. Peccato che nella traduzione la forza del titolo vada perduta.

Il titolo spiega anzitutto la prospettiva dell’autore, uno scrittore brillante che decide di riflettere su un argomento che per alcuni anni gli ha sottratto una gran parte del suo tempo. È stata – e lui ne è consapevole – una vera e propria dipendenza, senza limiti né orari, aggravata dalla contemporanea assunzione di cocaina: ore e ore, giorni e notti trascorsi a immergersi dentro scenari digitali angusti o enormi, terrificanti o suggestivi, comunque tangibili perché lui ne era il protagonista. Extra lives, qui, è la prospettiva del sopravvissuto, del reduce che l’ha scampata oppure, se preferite, di Ulisse che infine è approdato a Itaca.

In secondo luogo, tuttavia, extra lives si riferisce a una dimensione meno individuale e ancora più grandiosa: quella di un’attività, creare videogiochi, che si è dilatata fino a diventare industria e commercio e ha profuso risorse pressoché infinite per riuscirci. E mostra, in quanto fenomeno socio-economico collettivo ancor prima che come solitaria avventura dell’ingegno creativo, di quali prodezze e contraddizioni sia capace una generazione che si è sentita quasi onnipotente al momento di inventare e proporre prodotti derivati da una simile tecnologia.

Parlare con i creatori di videogiochi – conversazioni ricorrenti nel libro – equivale a calarsi, quasi come in un videogioco, nelle possibilità illimitate che negli ultimi vent’anni si sono offerte a quanti erano capaci di “far funzionare”, sotto tutti i profili, giochi interattivi di successo. Quasi sempre si tratta di persone geniali, e sempre di professionalità eccellenti che sanno mettersi in gruppo e collaborare per realizzare le molte componenti di prodotti costosissimi (un videogioco “triple A”, per usare il termine preferito da chi si riferisce ai blockbuster, può costare 50 milioni di dollari) e definiti al massimo livello in ogni dettaglio, dalla grafica all’interazione, dalle luci agli effetti speciali. Soltanto in questo mondo capita di incontrare tanti uomini che sotto i trent’anni hanno  avuto in mano la pentola d’oro dell’arcobaleno, con libertà di scegliere e decidere e inventare. Purché tutto questo producesse vendite e pubblico e soldi, ovviamente.

Qui c’è l’altra dimensione del fenomeno, quella riguardo a cui Bissell ha secondo me appuntato le sue critiche nella maniera migliore e più originale. Quanta qualità effettiva corrisponde a tanto dispendio di energie? Se si guarda ai videogiochi dalla prospettiva di chi è abituato ad apprezzare creazioni umane come romanzi e film, la delusione – commenta Bissell – è enorme. C’è, è vero, e se ne parla molto bene, una difficoltà intrinseca nel trasformare un videogioco in una “storia interattiva” da vivere in prima persona, scegliendo di volta in volta che cosa dire e che cosa fare per andare avanti tra varie opzioni disponibili. Il termine di “dissonanza ludo narrativa” illustra bene il contrasto tra quelle che Jonathan Blow (uno tra i più acuti creatori di videogame che Bissell intervista nel libro) definisce le due componenti essenziali del gioco, la sfida e la storia. La sfida è la dimensione essenziale del gioco, quella che ti chiama in causa per riuscire a guidare al meglio il tuo avatar, e quindi fare il punteggio più alto. La storia, invece, è il dipanarsi della trama, nella quale andare avanti significa invece proseguire l’esplorazione delle alternative. “Storia e sfida hanno un conflitto strutturale così radicato da rendere impossibile”, dice Blow e integra Bissell, “la creazione di storie forti all’interno dei videogiochi”.

In sostanza, sarebbe la componente ludica del videogioco, le regole e la sfida da accettare per “vincere”, a sabotare l’eventuale dimensione narrativa, che potrebbe fare del videogioco una vera e propria “storia interattiva” tale da affiancarsi a romanzi e film nell’immaginario collettivo. Posto che Blow, creando qualche anno fa il gioco Braid, ha dimostrato che invece se si ragiona con maturità culturale su questi temi si possono raggiungere buoni vertici di originalità (il bellissimo Braid è in apparenza un platform, un corri-e-salta in stile SuperMario, ma in realtà è anche una riflessione quasi metafisica sul tempo e sull’amore), sulla strada dei nuovi creatori di storie interattive, fin qui, si sono frapposti ostacoli di tipo culturale e commerciale.

È l’abisso fra “prodotto” e “testo” che i videogiochi devono saltare se vogliono davvero crescere. Le logiche commerciali, vincenti ieri e oggi, dovrebbero fare spazio a intenzioni più profonde, specie se – come sta accadendo con l’invasione dei touch screen – i testi interattivi e anche i videogiochi acquisiranno sempre più spazio anche a livello popolare e formativo. In questo caso anche i creatori di giochi potranno diventare più competenti nelle parti propriamente narrative, oggi spesso abborracciate quasi fossero pretesti per giocare e giocare. Rispetto a Bissell chi scrive è più ottimista guardando a giochi recenti come Fallout, Skyrim, L.A. Noir e Mass Effect. Forse ancora lontani dal “romanzo interattivo”, ma indubbiamente su quella strada.

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