venerdì, Novembre 22 2024

Film diretto da John Curran, tratto da un romanzo di W. Somerset Maugham Lift not the painted veil which those who live Call Life (Percy Bysshe Shelley)

La prima scena del film “Il velo dipinto” è un’immersione nella vendetta. Il dr. Walter Fane, batteriologo inglese a Shangai, sta trascinando la moglie Kitty in un  inferno di caldo, umidità e miseria, per vendicarsi del suo tradimento.

I protagonisti stanno viaggiando verso il villaggio infestato dal colera e ai confini del mondo, Mei-tan-fu, che Walter ha scelto come destinazione per punire la moglie adultera. Non solo la costringe a seguirlo in una situazione di pericolo estremo, ma fa in modo di rendere quel viaggio più faticoso e doloroso per Kitty (ma anche per sé) di quel che sia necessario, tra caldo insopportabile e umidità. È un clima afoso e asfissiante, che contrasta con la freddezza e il controllo delle emozioni mostrato da Walter.

Timido, imbranato, decisamente poco allettante nella sua proposta di matrimonio a Kitty due anni prima, grato alla vita per essere riuscito a impalmare la ragazza carina e vivace dell’alta società, si trasforma in un uomo capace di rivolgere alla moglie dosi inimmaginabili di crudeltà. Una vena pulsante sulla tempia di uno straordinario Edward Norton (Walter Fane) tradiscono l’intensità dell’odio e del desiderio di vendetta. Quando infatti scopre di essere stato tradito le offre la scelta tra due alternative terribili; particolarmente inaccettabile, per una donna britannica degli anni venti del secolo scorso, è la prima delle due: il divorzio per colpa, in cui sarà esposta al pubblico ludibrio; in alternativa la partenza insieme al marito da Shangai verso una destinazione remota e pericolosa, in mezzo a un’epidemia di colera. Kitty, snob e superficiale (molto ben rappresentata da Naomi Watts) non ama Walter, non l’ha mai amato, non è mai stata innamorata di lui, non l’ha neanche mai considerato un “buon partito”. Non ha alcuna intenzione di andare incontro a un vero e proprio suicidio sociale accettando di divorziare, ma le è odiosa anche l’idea di continuare il matrimonio e di seguirlo ai confini del mondo, rischiando di contagiarsi il colera e morire. Corre allora dall’amante, illudendosi di trovare la vera felicità dove forse non è mai stata neanche per lei, dove forse si trova solo un “velo dipinto”, per scontrarsi con la realtà del rifiuto. Respinta, non ha scelta, seguirà il marito, obtorto collo, ovunque abbia deciso di andare. E la vendetta di Walter si consuma nei prolungati silenzi, nel disprezzo nei confronti di Kitty, ormai immersa in un mare di solitudine e disperazione.

Com’è possibile che da un’unione come questa possa emergere l’Amore? È un matrimonio fondato su un’iniziale infatuazione di Walter e sul desiderio di Kitty di emanciparsi da una madre petulante e impaziente di disfarsi della figlia, in una società che non garantiva alle donne molte altre chance di dignità sociale. Si doveva prima o poi passare dalla protezione paterna a quella di un marito. Ed era meglio fosse “prima” che “poi”, mentre la nostra Kitty si stava rapidamente avvicinando all’età pericolosa che trasforma una bella ragazza dell’alta società in una zitella destinata ad avvizzirsi a casa con mamma e papà. Insomma, non proprio delle basi solide su cui fondare un’unione duratura. Seguono il tradimento, il disprezzo, l’odio, la vendetta.

È evidente la sofferenza del marito, il dolore provocato dall’offesa del tradimento. Altrimenti come si spiegherebbe la crudeltà con la quale Walter fa palesemente finta di rassicurare la moglie (in realtà vuole terrorizzarla) al loro arrivo nel villaggio decimato dall’epidemia sul fatto che no, non deve preoccuparsi, tutto sommato morire di colera è una faccenda piuttosto rapida, è sì molto doloroso, ma nel giro di poche ore si arriva alla fine, per poi chiudere velocemente la porta della propria stanza e lasciare al di là la moglie sola e in preda alla disperazione? E il silenzio, la freddezza, il distacco che il marito riserva sistematicamente alla moglie costituiscono quella vendetta pensata e agita da Walter contro Kitty, ma che finisce per ricadere con forza anche su di lui, rendendolo ancora più cinico e infelice. È tutto così profondamente umano, così comprensibile: colui che è stato tradito si vendica con il distacco, il disprezzo, ma anche con tante piccole meschinità quotidiane. Viene in mente il motto di Terenzio, humani nihil a me alienum puto. Walter ha subito un’offesa grave, odia e si vendica. Ma la vendetta, perpetrata nell’illusione che potrà dare sollievo, è come un boomerang, si rivela alla fine fonte di sofferenza anche per chi la agisce. Che speranza c’è di sanare ferite così devastanti?

Eppure accade qualcosa di straordinario. Kitty, stanca di essere così stabilmente infelice, determinata a non finire la propria vita consumata dal livore e dal risentimento, prova a tendere la mano a quell’uomo così ostile e determinato a odiarla ( Perhaps I just want us to be a little less unhappy). Inizia a osservare il marito assumendo una prospettiva diversa. Un po’ alla volta egli non è più, ai suoi occhi, solo il corteggiatore imbranato dei primi tempi, o il batteriologo un po’ nerd immerso tra le provette, o l’uomo sadico che l’ha costretta a un viaggio inutilmente tortuoso e disagevole, ma inizia a emergere con le sue doti di compassione mentre la moglie lo osserva prendersi cura dei tanti pazienti disperati che a lui si affidano.

È un percorso tortuoso, di espiazione e di redenzione. Il confronto con la miseria, lo squallore, la malattia in quell’angolo di Cina avevano inizialmente fatto chiudere Kitty in un isolamento totale dalla comunità locale, facendole rimpiangere la vita londinese e le sue frivolezze. Ma nel tentativo di uscire da un’infelicità opprimente sente la spinta a uscire da se stessa e dal proprio egoismo. Forse vuole arrivare a sera sentendosi finalmente soddisfatta per aver dato senso alle proprie giornate, che per tanto tempo erano trascorse come un pendolo tra dolore e noia. Lentamente la vita di questa donna un po’ fatua e abituata al lusso diventa un’esistenza spesa anche per gli altri. Eppure non è la storia trita, banale, buonista e soprattutto inverosimile, di una trasformazione del personaggio da “cattivo” a “buono”. Per altro neanche alla figura del marito viene applicato questo cliché. È sempre Kitty ad agire, graziosa ed elegante, e che anzi metterà a frutto un aspetto di sé coltivato nella sua vita precedente di ragazza agiata, l’amore per la musica (magnifica colonna sonora di Alexandre Desplat). E Walter comincerà a osservare la moglie con occhi diversi, e attraverso questo sguardo nuovo sull’altro sarà possibile iniziare ad amarsi davvero. La prospettiva empatica gli consentirà di vedere Kitty non più solo come la ragazza salottiera e viziata della quale si era invaghito, colpito dalla sua bellezza, ma come una donna con un cuore capace di amare.

Cosa renderà possibile innamorarsi a queste due persone, a partire da quell’iniziale coacervo di odio e disprezzo? L’unica dimensione di relazione con l’altro che consente di riparare in profondità le relazioni, di rinnovarle, e di liberare dalle pastoie del passato, il perdono. È il perdono che salva Walter e Kitty dalla dolorosa coazione a ripetere, dal ruminare sui torti subìti, dal chiudersi in un gelido isolamento, dal vendicarsi illudendosi di ristabilire così la giustizia. È il perdono che, reciprocamente offerto e ricevuto nelle relazioni umane, apre alla libertà e consente di ricominciare a vivere.

(*) La prof.ssa Barbara Barcaccia insegna Tecniche del Colloquio Psicologico presso l’Università degli studi dell’Aquila, è docente della scuola di specializzazione in Neuropsicologia, Sapienza Università di Roma e didatta della scuola di specializzazione quadriennale post-lauream APC-SPC. È curatrice, insieme a Francesco Mancini, del volume “Teoria e clinica del perdono” (Raffaello Cortina Editore), finalista del Primo Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica dell’AIL e patrocinato dal CNR.

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