giovedì, Marzo 28 2024

Ognuno di noi ha chiara nella mente la distinzione tra buone e cattive
notizie. Le cattive notizie ci rimandano a un problema non risolto, a un
fallimento, a una malattia, alla morte, alla distruzione, a qualcosa che
genera angoscia e delusione. Le buone notizie ci raccontano, invece, di una
vita capace di rialzarsi, ci parlano di servizio, sacrificio per l’altro,
gratuità, perdono, tenerezza, guarigione.

Tutti sappiamo che si possono ricevere sia buone che cattive notizie;
eppure, è evidente, quando apriamo il pc, quando consultiamo un giornale,
quando accendiamo la televisione che riceviamo in maggior misura notizie
negative.

Come spiega, ironizzando, la giornalista Susanna Wolf, « “Solo cattive notizie sono buone notizie” è un motto nel
giornalismo. Descrive il principio secondo cui le storie vendono bene solo
se si basano su un conflitto o su una situazione drammatica».

In effetti, sfogliando un giornale,

non vediamo proporzione tra notizie che mostrano la solidarietà e
quelle che pongono l’attenzione sul conflitto, sfruttando la paura

.

Possiamo dire però, che, in questo modo, i media descrivono la realtà
adeguatamente? O è più giusto affermare che ci presentano una realtà
distorta, dove sembra essere presente solo il male?


L’importanza della proporzione tra buone e cattive notizie

Ci sono notizie negative che devono essere comunicate. Non possiamo certo
non sapere che un nostro caro ha un problema di salute. Non possiamo
ignorare che si sta combattendo una guerra in Ucraina o che esiste una
nuova epidemia. Il punto, però, è un altro: dobbiamo davvero essere
informati solo di ciò che di negativo accade?

Non si tratta di scappare dalle situazioni non positive
(essere informati è segno di partecipazione attiva, alla vita famigliare e
della collettività),

ma perché, se siamo giornalisti, non offrire anche buone notizie

?

Ogni giorno, nel mondo, si compiono tante, importantissime, opere di
solidarietà: dei missionari partono per terre lontane solo per lenire le
sofferenze di popoli svantaggiati; ogni giorno sorgono nuove case famiglie
per aiutare i bambini; ogni giorno delle prostitute vengono salvate dalla
strada attraverso centri che si occupano di contrastare la tratta di
persone, ogni giorno uomini e donne rischiano la vita per portare acqua e
cibo nei territori di guerra. Ci sono iniziative per la pace, per favorire
l’integrazione tra le persone, ci sono guarigioni da dipendenze e storie di
perdono fuori dai tribunali. Perché non dare maggiore rilevanza a notizie
come queste, che portano speranza e possono ispirare altre persone?


Valorizzare il bene non significa sminuire la gravità dei fatti
negativi, ma aiutare a vedere il buono che è nell’uomo.

Promuovere la pace attraverso l’informazione

Oltre al tipo di informazioni da dare e a garantire una ragionevole
proporzione tra buone e cattive notizie è importante anche il modo in cui si informa. Prendiamo,
ad esempio, il tema della guerra, purtroppo sempre attuale. Il linguaggio,
spesso, plasma la realtà: trasforma pensieri e percezioni. Glasser,
presidente dell’Associazione per l’educazione nel giornalismo e nella
comunicazione (AEJMC), mette in guardia rispetto ad alcuni pericoli legati
all’ideologizzazione della stampa, commentando l’informazione diffusa nel
suo paese sulla guerra in Iraq: «

Ora come sempre, il linguaggio della guerra disinfetta, scambia e
mistifica le ragioni; celebra l’aggressione e glorifica la morte;
demonizza “loro” e deifica “noi”. E peggio ancora, il linguaggio della
guerra avvilisce il dibattito lasciando scarso spazio al dissenso e al
disaccordo

».

Come osserva il professor Norberto González Gaitano della Pontificia
Università della Santa Croce, nel suo paper

Giornalismo e conflitti. Una lettura dell’attività giornalistica alla
luce dell’enciclica Pacem in terris

, i giornalisti «devono fare uno sforzo costante di traduzione per non
rendersi complici delle strategie di propaganda dei contendenti. Le guerre
non sono mai pulite, nonostante i tentativi di sminuire i termini per
giustificare le azioni crudeli o anche brutali che esse comportano o
semplicemente per mistificarne le ragioni: espressioni come “eliminazione
selettiva”, “liberazione” per invasione, “fuoco amico”, “effetti
collaterali”, “coalizione dei volenterosi”, “asse del male”, “resistenza”
per terrorismo, ecc. sono dissimulazioni della realtà. Altre volte, e
accade spesso quando ancora non ci sono vittime né sangue né distruzione da
mostrare, i giornalisti si concentrano quasi ossessivamente sul rituale
dell’esibizione tecnologica dell’armamento, come abbagliati dal morboso fascino del male, male che si
presenta in quel momento solo virtualmente e che perciò è innocuo”.

Se si è impegnati nel campo dell’informazione è un vero peccato prediligere
solo le vendite. Perché per fare di questo lavoro un autentico “servizio”
occorre preoccuparsi, prima di tutti, del bene comune.

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