giovedì, Marzo 28 2024

La velocità della propagazione del coronavirus, Covid19 o
virus di Wuhan, regione della Cina dove è partita la pandemia, nel giro di
24 ore rende obsolete le decisioni delle autorità preposte a confrontarne
gli effetti.

Insieme al virus, si propaga una più che comprensibile paura, anche panico
talvolta. La cultura della comunicazione elettronica, in cui siamo
immersi da più di mezzo secolo, accelerata dalla rivoluzione tecnologica
digitale, ha semplicemente moltiplicato l’istantaneità reattiva
della “folla umana” con tutti i suoi paradossi. Molti
saggisti, opinionisti e scrittori hanno suggerito la lettura delle pagine
del Manzoni che raccontano la peste di Milano del Seicento come catarsi
purificatrice dei sentimenti dinanzi a ciò che viviamo, cosa che la buona
letteratura ha da sempre operato sull’animo umano.

Noi di Family and Media vogliamo iniziare una conversazione per
capire insieme alcune lezioni da condividere osservando gli
effetti che ha il Covid19 sulla dimensione comunitaria. Una madre di
famiglia (Cecilia Galatolo), un professore di Diritto Romano e Diritto Globale (Rafael Domingo Oslè) e un
docente di comunicazione pubblica (Norberto González Gaitano) si sono messi
a riflettere su che cosa ha da dirci la sofferenza di tante persone, i
“disagi” causati dalle tante -seppur necessarie – restrizioni nella vita
con gli altri, l’incapacità del sistema comunicativo di informarci di che
cosa stava (sta) succedendo e anche –e non meno grave- come noi persone
singole e comunità non siamo stati in grado di percepire la realtà.

Sono tre quindi i piani su cui riflettere: le relazioni umane, il
gigantesco flop informativo del sistema tecnologico di
comunicazione più avanzato della storia (così credevamo) e il ruolo della
tecnologia in questo abbaglio collettivo e di come uscirne personalmente.

Ogni bollettino giornaliero di persone sottoposte ad esami, contaminati,
morti e guariti è come un bollettino di guerra che cambia lo scenario in
corso. Ciò che non è cambiata è la nostra razionalità, la capacità di
osservare, guardare, riflettere, pensare e capire.

Vogliamo partire da un fatto nudo, brutale, e che pure nessuno ci sta
mostrando, perché non è possibile farlo sicuramente neanche volendolo
nonostante tutti nostri mezzi. L’editorialista di un noto giornale italiano
chiama il fatto, la cifra dei

contagiati clandestini.

Sono i deceduti che muoiono senza visibilità alcuna, ridotti a una cifra
statistica. Scrive Ezio Mauro:


Dunque si muore clandestinamente. Nessun parente è accanto al letto
nell’ospedale, nessun saluto è possibile, nessun funerale è concesso. È
vero che si muore sempre da soli, ma qui è diverso: per la prima volta
la morte è talmente singolare da diventare pura notizia senza rito,
statistica, nuda comunicazione da un altrove, semplice scomparsa:
cancellando l’imponenza tragica del trapasso, restringendo il lutto a
evento individuale, spogliando la morte dei suoi effetti sociali, del
suo significato collettivo, delle simbologie culturali. Riducendola,
infine, a semplice fatto biologico.

Dove è la costatazione del fatto? Ezio Mauro, giornalista di lunga data,
come noi tutti comuni conoscitori, lo sa. Non è necessaria la
camera, l’immagine, la testimonianza della fonte vicina. Forse, come
all’editorialista, manca un passo in quel sapere, che richiede un
successivo atto di coraggio nel “guardare” l’invisibile: tolti gli effetti
sociali, le simbologie culturali (e perché non menzionarne anche le
religiose?), cosa resta? Solo un fatto biologico o una grande domanda sul
senso di quella vita?

Forse la nostra società iperconnessa, ipertecnologica, ipersviluppata,
iperistruita, iper…era diventata iperignorante. Magari dobbiamo tornare a
scuola di umanità. Noi lo vogliamo fare su questi tre nodi: le relazioni
personali, la informazione sul mondo comune e le competenze umane richieste
ai nuovi cittadini del futuro post-coronavirus.

Rimanete sintonizzati e mandateci i vostri pensieri. Davvero ci interessano. Noi tre abbiamo parlato
tra di noi (certo attraverso comunicazioni digitali perché non è possibile
ancora farlo attorno ad un caffè o una pizza) e con tante altre persone…e
ci ritroviamo con simili pensieri.

Abbiamo davvero bisogno di farci dire su che cosa pensare e come pensare da potenti agenti di comunicazione? O piuttosto
abbiamo solo bisogno di scoprire ciò che già sapevamo, a proposito di una
notizia che ci fa pensare, e avevamo semplicemente ignorato comodamente
perché storditi da milioni di “informazioni” tutti ugualmente banali.
Proviamo a scoprirlo assieme? Grazie per l’ascolto e l’eventuale collaborazione.

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