sabato, Novembre 23 2024

Non molto tempo fa, nei primi di febbraio, è stato ammesso in gara a Sanremo (il più importante festival della musica in Italia) un certo Antonio Signore, in arte Junior Cally, con il testo “No grazie” (brano di politica). Il ragazzo aveva, però, alle spalle un repertorio dai temi profondamente sessisti.

“Sono solo canzoni, i problemi veri sono altri” oppure “L’arte è libera: nessuno dovrebbe essere censurato”, ho sentito dire.

Ma… sono frasi di senso compiuto, davanti ad un testo che inneggia – senza mezzi termini – al femminicidio?

“Quindi il male non si può rappresentare? Tutti i film con gli omicidi, allora?”, mi è stato domandato direttamente.

Tali considerazioni mi hanno spinto a riordinare le idee.

Non ho qui lo spazio che ho avuto quando, nella mia tesi di laurea, ho affrontato il tema del racconto e del potere della rappresentazione, perciò cercherò solo di rispondere brevemente a tre domande.

1)  Non si può parlare del male nei testi delle canzoni?

Certo che sì, ma come si parla del male non è irrilevante: anzi, è ciò su cui si gioca tutto.

Il mondo dello spettacolo, il cinema, i libri e anche le canzoni sono pieni di storie in cui il male c’è. D’altronde, è una realtà che fa parte del nostro mondo, come potrebbe non far parte del nostro mondo rappresentato?

Basti pensare alle fiabe che leggiamo ai bambini, sin da piccoli. Mio figlio adora la storia della mamma e delle sette caprette, in cui un lupo cerca di ingannare questi piccoli, mentre la madre è via, a fare provviste. Prima si addolcisce la voce col miele, poi si spalma della farina bianca sulla zampa, per convincere i capretti di essere la loro mamma e farsi aprire la porta. È così furbo e loro così ingenui, che alla fine quella porta si apre e il lupo mangia i piccini uno per uno.

Soltanto il più piccolo dei sette riesce a nascondersi e a salvarsi. Sarà lui, una volta rientrata la mamma, a raccontarle l’accaduto. Insieme, riusciranno a tirar fuori tutti i fratelli dalla pancia del lupo, che nel frattempo si è addormentato sotto a un albero.

In questa storia – che io leggo ogni sera a mio figlio di neppure tre anni – il male c’è: ma non è rappresentato come un bene, né è rappresentato come superiore al bene.

Ed è questo il punto. Se il signor Antonio Signore avesse scritto un testo di denuncia verso il femminicidio o avesse narrato la storia di una donna che ha rischiato di essere uccisa e invece si è salvata, dubito che ci sarebbero state decine di petizioni per escluderlo dalla gara. Dubito che si sarebbero indignate le associazioni che lottano per difendere le donne da violenze e abusi. Il cantante in questione e chiunque si comporti come lui creano scandalo, perché non solo non esprimono la superiorità del bene sul male (necessità antropologica), ma descrivono il male come fosse un bene, sovvertendo lo schema valoriale della società in cui vivono.

E, d’altronde, viene il dubbio che il signor Antonio Signore tratti temi così delicati in questa maniera per attirarsi visibilità. Si diverte, forse, a “scandalizzare” senza rischiare nulla. Avrebbe fatto la stessa cosa in una società o in una cultura che, rispettando tanto la libertà sessuale delle donne, avesse reagito con violenza su artisti tanto “coraggiosi”?

2) L’arte è libera e non deve esserci mai censura?

La libertà di espressione è un diritto, certo, ma ha dei limiti. In una società che abbia per fondamento il rispetto reciproco, non è permesso – in nome della libertà – offendere e denigrare.

Il rispetto per il prossimo è un valore superiore della libertà assoluta del singolo. Se così non fosse, in nome della libertà si potrebbe davvero giustificare ogni cosa, anche le azioni più riprovevoli.

Ora, se un cantante ride e scherza sulla violenza che molte donne subiscono nella realtà, questa non è autentica libertà, questa non è arte, questaè violenza veicolata da una presunta arte.

E ciò viene permesso in nome di una ingiusta libertà di espressione, che qui diviene tirannica, perché non tiene conto delle sofferenze e dei sentimenti altrui.

Ricordiamo, inoltre, che l’arte ha una responsabilità: ha il potere di educare o di deviare. Lo avevano già capito gli antichi. Pensiamo ai Greci, per i quali il teatro era un contesto dalla forte rilevanza pedagogica. I messaggi che venivano trasmessi erano attentamente vagliati: se ritenuti non conformi ai valori della città, non potevano andare in scena, perché potevano compromettere l’integrità dei giovani.

Già, soprattutto dei giovani, ancora non del tutto formati. Fragili, alla ricerca di senso e di risposte. Ancora in quella fase delicata della “costruzione del sé”.

Questo concetto era noto oltre duemila anni fa – prima ancora della venuta di Cristo e della nascita della Chiesa (spesso falsamente ritenuta origine e colpevole di tutte le censure) – può non essere tenuto presente dagli organizzatori di un festival guardato da 10 milioni di telespettatori, in una rete pubblica come la RAI?

3) Sono solo canzoni e “i problemi veri sono altri”?

Che il mondo sia pieno di problemi da risolvere è indubbio. E, certamente, la violenza sulle donne va combattuta ad ogni livello, non solo nel mondo della musica (a partire dall’educazione in famiglia, da politiche credibili, da piani formativi mirati nelle scuole o in Chiesa), ma, mi si perdonerà la radicalità: occorre sinergia.

Occorre essere compatti in questo obiettivo, chiedendo anche all’arte di schierarsi in favore di questa buona causa.

Occorre che non sia permesso a dei Junior Cally qualsiasi di remare contro l’enorme lavoro che la società sta cercando di fare.

Il testo incriminato – con tanto di video, che non ho avuto il coraggio né il desiderio di vedere: mi è bastato leggere il testo scritto – ha raggiunto oltre cinque milioni di visualizzazioni su Youtube.

Chi ha raggiunto? Persone stabili emotivamente? O persone fragili? Persone che faticano già ad avere autocontrollo? Ma soprattutto, c’è bisogno di inneggiare alla violenza?

Forse non aumenteranno gli omicidi, ma aumenterà il senso di rispetto dovuto a ogni persona e a ogni donna?

Farà del bene? Farà riflettere in positivo? Se le risposte a queste domande sono “no”, perché il signor Signore deve guadagnare milioni di visualizzazioni (e quindi milioni di euro), speculando su dei drammi che colpiscono tante donne in ogni parte del mondo?

Perché questo signore deve essere invitato a salire sul palco dell’Ariston – vetrina così ambita dai cantanti in Italia – e pubblicizzare la sua “musica”?

Ci vuole coraggio, certo, per dire che non tutto è permesso, in un’epoca in cui vengono censurati video che parlano di famiglia naturale, ma chi inneggia alla violenza può cantare indisturbato e ottenere milioni di visualizzazioni.

Ci vuole coraggio, ma c’è in gioco il futuro dei nostri ragazzi. E, per i più venali, in questo caso anche i nostri soldi: che con il canone Rai vanno nelle tasche di chi permette tutto questo.

Non si può restare in silenzio quando un’ emittente pubblica e prima ancora i gestori di Youtube ignorano volutamente che c’è un bene da difendere a tutti i livelli, solo perché il trapper in questione “fa fare soldi”, sfruttando la fragilità di persone che cercano modelli forti con cui identificarsi (si legga, su questo: Musica Trap: ecco perché piace tanto ai giovani).

Ci impegniamo a denunciare queste incoerenze, cercando di mantenere un cuore caritatevole, con la speranza che il buonsenso arrivi a vincere, prima o poi, sugli interessi economici.

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