sabato, Novembre 23 2024

Gli strumenti di comunicazione moderni sono spesso considerati responsabili di molte carenze nel campo delle relazioni umane presenti nella società.

Certamente, questi mezzi hanno dei limiti e, se non vi è equilibrio in chi li usa, possono effettivamente diventare pericolosi, portando persino a crisi depressive.

È bene, però, di tanto in tanto, spostare l’attenzione dagli oggetti a chi ne fa uso, per ricordarci che siamo sempre noi responsabili di quanto accade e non le cose che possediamo.

Per quanto riguarda l’educazione nell’ambito della comunicazione, da mamma e da ricercatrice in questo campo, credo che non siamo “condannati” a crescere dei figli-automi, incapaci di staccare lo sguardo da un i-pad, incapaci di pensare ed amare realmente, solo perché “questo è il mondo in cui si trovano”.

La capacità di comunicare autenticamente nasce in famiglia

Per quanto i Social Network possano contribuire ad appiattire sentimenti, ad inibire capacità di dialogo, di comprensione e di analisi, è sempre ciò che si semina nei cuori e nelle menti dei più piccoli a fare la differenza. Mi piace pensare che, oggi come ieri e come domani, una famiglia attenta possa sopperire ai deficit socio-culturali con cui si trova a fare i conti.

Mi piace pensare che comunicare in modo pienamente umano con bimbi e ragazzi possa portare anche loro a farlo, indipendentemente dalla tv che hanno nel salotto.

Una comunicazione personale – nel senso letterale del termine – avviene quando si riconosce nell’altro un “tu” da incontrare e far emergere. Ma una relazione così, una relazione “io-tu”, anziché “io-esso” – per dirla con il filosofo Martin Buber – si costruisce molto più facilmente se si è stati trattati come “tu” per primi, da sempre, cioè sin da piccoli.

Di seguito vorrei, allora, proporre tre aspetti della comunicazione che, a mio avviso, non dovrebbero mancare in famiglia, se si vuole educare i ragazzi a delle relazioni “reali”, sincere e profonde.

Guardare l’altro con attenzione

Se molti ragazzi non sanno “guardare gli altri” non è solo perché sono accecati dai loro telefoni, ma anche – e forse soprattutto – perché non sono stati loro per primi guardati. Anzi, è possibile che, proprio perchè non sanno rapportarsi all’altro, lo rifuggono, nascondendosi dietro a una tastiera.

Se i ragazzi non valorizzano la bellezza del prossimo, forse è perchè, come sostiene lo scrittore Alessandro D’Avenia, nessuno ha ancora visto e mostrato la bellezza che c’è in loro.

Ogni educatore, specialmente il genitore, è chiamato, allora, a fare questo: guardare in profondità nella vita dei ragazzi,prestare attenzione a ogni cosa, ai particolari, all’espressione del volto. È chiamato a osservare ciò che il bambino o il ragazzo ama, ciò non gli piace, ciò che gli provoca gioia e dolore. È chiamato a mostrargli la sua bellezza.

Tutto questo implica metterlo al centro e non ai margini della propria vita, sapendo che chi viene trattato “da persona”, chi si sente importante per qualcuno, imparerà a trattare come persone gli altri, indipendentemente dal fatto che abbia o no un telefonino in tasca.

Prossimità e disposizione all’ascolto

L’egocentrismo e la vanità regnano sovrani nella nostra società. Parliamo, raccontiamo, mostriamo di noi più di quanto non ci interessiamo agli altri. I vari Social e la tv ci mettono del loro per favorire questi atteggiamenti: in essi è più facile esibirsi, che offrirsi al prossimo.

Eppure, se gli strumenti di comunicazione avessero il potere di chiudere automaticamente orecchie e cuore di chi li usa, allora dovremmo arrivare a dire che tutti coloro che li utilizzano sono ottusi e narcisisti, egocentrici e insensibili verso gli altri. Eppure, non è così.


La capacità o l’incapacità di avvicinarsi all’altro non nascono dai Social
: hanno a che vedere con qualcosa di più profondo. Hanno a che vedere con la nostra maturità affettiva, con la nostra vita interiore. E la famiglia ha un ruolo importantissimo nell’educare alla prossimità – senza la quale non esiste comunicazione autenticamente umana.

Un modo per favorire l’atteggiamento di prossimità è assumere e incoraggiare la disposizione all’ascolto. Da educatori e genitori dovremmo dare l’esempio, ascoltando il doppio di quanto parliamo, (come dice il filosofo greco Zenone di Cizio, IV sec. A. C, abbiamo due orecchie e una sola bocca proprio per questo).

Se in famiglia si impara ad ascoltare e ad interessarsi all’altro, non saranno certo Instagram o Facebook a far perdere queste preziose qualità…

Educarsi e educare all’empatia

Quante volte sui Social leggiamo commenti frivoli o sprezzanti, ricchi di luoghi comuni e di odio? Quante volte constatiamo insensibilità e superficialità nell’accostarsi alla vita degli altri? “I Social ci hanno reso cinici e spietati”, sostiene qualcuno.

Di certo, non aiuta passare ore e ore davanti ad uno schermo a parlare con o di persone percepite tanto distanti da divenire quasi irreali, ma il motivo più profondo per cui “si spara a zero” sugli altri, sulle loro azioni, sulle loro problematiche è che è mancata una sana educazione all’empatia.

Per tornare al concetto di Buber, l’altro non è qualcosa, ma un “tu”, con una sua storia, con delle ferite, con delle sofferenze e delle difficoltà.

Educarsi e educare all’empatia significa chiedersi il perché dei gesti dell’altro
, provare a mettersi nei suoi panni, domandarsi cosa prova e come aiutarlo, invece di condannare.

Insegnare ad un bambino o ad un ragazzo a chiedersi cosa passi nella mente e nel cuore dell’altro è una grande ricchezza.

L’empatia va sperimentata anzitutto in famiglia: non è irrilevante se le lacrime di un bambino vengano asciugate o meno, se gli viene chiesto come sta, come va coi compagni, se qualcosa lo fa soffrire, come mai ha fatto un determinato gesto.


Un bambino o un ragazzo che ha sperimentato su di sé l’empatia, sarà più propenso ad avere empatia
con gli altri.

Il fine di questo articolo non è incensare i nuovi strumenti di comunicazione e né, tantomeno, discolparli da tutti i guai che sono ad essi attribuiti. Sappiamo che possono essere, effettivamente, problematici e rischiosi, specialmente per dei giovani in formazione, soggetti a ribellione e cambiamento.

Ciò che ci premeva era solo focalizzare l’importanza di un’educazione che parta “da dentro” e che miri a sviluppare la capacità di comunicare in modo pienamente umano, indipendentemente dagli strumenti che si usano.

I Social possono complicare il lavoro dell’educatore, ma non devono diventare un alibi o il capro espiatorio, per non ammettere delle carenze educative ed affettive che non dipendono da essi.

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