sabato, Novembre 23 2024

Roma, 6 aprile 2018. Viene rimosso dalla facciata di un palazzo un manifesto pro-vita, in cui venivano descritte le caratteristiche anatomiche di un feto a 11 settimane, età gestazionale in cui è possibile abortire per legge.

Pavia, 7 marzo 2018. Il vescovo Corrado Sanguineti viene tacciato di omofobia da vari giornali, gruppi e sui social per aver ricordato la visione cristiana sulla sessualità, suggerendo a persone omosessuali la via della castità.

Questi sono solo due esempi di “censura”, targati Italia, su temi di morale molto complessi e dibattuti quali aborto, sessualità, matrimonio.

Il panorama internazionale, tuttavia, offre altri casi che mostrano come su questi argomenti non sia “permesso” pensarla diversamente dalla maggioranza.

Si pensi a YouTube che blocca video pro-life affermando che possono essere offensivi o a Facebook che censura concezioni cristiane sulla famiglia o sul matrimonio, schedandole come estremistiche.

Negli USA è stata contestata perfino una pubblicità di patatine, perché avrebbe avuto la colpa di “umanizzare” i feti (e quindi di condannare indirettamente l’aborto), mostrando un bimbo che, già nella pancia della mamma, desidera assaggiare il prodotto.

Guardiamo poi al caso particolare della Francia, dove si sta pensando di introdurre delle pene per coloro che cercano di far cambiare idea ad una donna che vuole abortire.

Episodi simili fanno sorgere una domanda, che precede la discussione etica sugli argomenti citati: queste “nuove forme di censura” non entrano in contraddizione con il rispetto della libertà d’espressione, diritto tanto decantato in Occidente?

Ci troviamo davanti ad un paradosso: talvolta, in nome della libertà di pensiero, si giustificano persino offese ed insulti. Al tempo stesso, vengono rimossi manifesti in cui, senza offendere nessuno, si afferma una verità comprovata scientificamente, ovvero che a 11 settimane il bambino in grembo ha già un cuore che batte…

Il caso di Charlie Hebdo: quando in nome della libertà tutto è permesso

“Io sono Charlie” era diventato il motto di migliaia di persone in tutto il mondo, dopo l’attacco terroristico ai danni del periodico settimanale satirico francese Charlie Hebdo, avvenuto a gennaio del 2015. Saremo in molti a ricordare come l’opinione pubblica non si era solamente schierata contro la violenza degli attentatori, ma si era espressa con forza in favore della libertà di espressione, difendendo senza “se” e senza “ma” l’operato del giornale, sebbene fosse solito deridere e denigrare persone o gruppi, in particolare comunità religiose, con delle vignette irrispettose che esulavano dal diritto di esprimere delle idee.

Alcuni si mostravano perplessi di fronte all’indelicatezza del giornale, per qualcuno l’irriverenza che dimostrava era eccessiva, eppure, al di là del gusto e della sensibilità personali, molti sostenevano che il periodico andasse difeso, per salvaguardare la libertà di espressione. Si trattava, sì, di una libertà “portata all’estremo”, che sconfinava, forse, nella mancanza di rispetto, ma impedire loro di “esprimersi” significava rinnegare dei valori fondamentali per una democrazia.

Una libertà senza limitazioni

Di fatto, nel contesto comunicativo che si è creato in Occidente, si ha l’impressione che poco importi quali siano le idee che si sostengono: in una società che si definisce libera e tollerante ciò che conta è che ciascuno possa dire la sua. Questo implica che dobbiamo rinunciare tutti ad un po’ della nostra “permalosità”.

Notiamo, allora, come la blasfemia sia sempre più accettata e vista come una delle tante modalità di espressione (sono molto ridotte le censure rivolte a chi ridicolizza il sacro), notiamo come sia permesso a dei gruppi o a dei singoli di portare avanti delle campagne in difesa di qualcuno o qualcosa: si vedano le propagande politiche o le azioni mirate a salvaguardare alcune categorie di persone (le donne, i diversamente abili, i lavoratori), gli animali o la natura…

Pensiamo ai manifesti affissi per le città a ridosso della Pasqua, per fermare l’uccisione di agnelli e di animali in generale. Cosa succederebbe se un macellaio si adoperasse per far togliere quei manifesti, perché compromettono la sua attività e le sue finanze? La tutela della libertà della espressione gli impone di accettare che alcune persone cerchino di convincere altre a non mangiare la carne, così come lui può continuare ad inviare volantini con gli sconti e le promozioni che si possono trovare sull’acquisto di carne nel suo negozio.

Sembrerebbe di vivere in un contesto culturale dove la libertà di espressione sia garantita a tutti…

E invece non è così.

Le regole del gioco non valgono sempre…

In questo clima, stupisce certamente che ci siano argomenti su cui si impone un pensiero unico…

Se su matrimonio e aborto non esiste un solo punto di vista, perché non dare a più parti la possibilità di esprimersi?

Perché se in nome della libertà di espressione si accetta che Charlie Hebdo ridicolizzi le vittime dei terremoti e delle calamità naturali o offenda senza scrupolo imam e sacerdoti, non si può parlare – senza andare incontro alla gogna mediatica, essere emarginati o etichettati come omofobi – di matrimonio come legame tra un marito e una moglie?

Perché non si può dire che l’aborto di fatto elimina esseri umani che hanno già iniziato a vivere, senza che ciò implichi mancare di rispetto alle donne che soffrono per aver abortito?

La libertà di espressione al centro dell’XI Seminario Professionale sugli uffici di comunicazione della Chiesa

L’XI Seminario Professionale sugli uffici di comunicazione della Chiesa, tenutosi a Roma dal 17 al 19 aprile, presso la Pontificia Università della Santa Croce ha affrontato proprio il tema della libertà d’espressione. Nella sua relazione introduttiva, Jordi Pujol ha affermato: “Viviamo una situazione paradossale. Da un lato, c’è una escalation d’intolleranza che porta a censurare idee o speaker «pericolosi» nel nome di una nuova ortodossia. E da un altro canto, si tollerano le offese più incivili ai simboli e a persone religiose”.

Riguardo l’argomento del nostro articolo, ovvero sulla difficoltà di esprimere le proprie idee su aborto e matrimonio, ha mostrato anch’egli una certa perplessità: “È innegabile che una persona non possa essere discriminata per il fatto di essere gay o bisessuale. Il punto centrale del dibattito, però, non è l’oppressione di un gruppo, ma la libertà di pensiero sulla visione dell’uomo, della donna del mondo. C’è libertà di dissentire su questi argomenti in pubblico? Oppure no? Il fatto di rischiare che una carriera finisca o, addirittura, di andare in galera non sono indici di un sano pluralismo”.

La dittatura del pensiero unico

Accade che in un contesto culturale dove si cercano di eliminare gli “assoluti morali”, si impone un nuovo assoluto morale: “Ognuno può fare quello che vuole… ma senza giudicare male ciò che è considerato giusto dalla maggioranza; nessuno può intromettersi nelle scelte altrui, se sono conformi a ciò che è socialmente accettato…”.

Quando si discute di aborto, si può essere “a favore della vita”, ma si deve essere d’accordo sul fatto che ogni donna possa scegliere liberamente cosa fare di se stessa e della creatura che porta in grembo. Si può “preferire” per sé il “matrimonio tradizionale”, ma si deve accettare che con il termine “matrimonio”, oggi, si definiscano anche altri tipi di unione.

Sembra quindi che la libertà sia garantita solo finché si parla per se stessi, quando qualcuno si permette di esprimere un giudizio morale su una azione, uno stile di vita, una posizione etica non ritenuta corretta dalla maggioranza, ecco il meccanismo di rifiuto e il ritorno della censura…

Questo, però, non si addice affatto ad una democrazia.

Prendendo in prestito ancora le parole di Jordi Pujol, “Alla fine succede che l’esercizio della libertà di espressione viene limitato non soltanto da regimi dittatoriali, ma anche da certe “elite” di pensiero unico”.

Che fare, allora?

La parola d’ordine è “prudenza”. Comunicativamente parlando, il modo in cui si dice qualcosa conta quanto ciò che si dice. Spesso, però, non basta neppure l’acutezza nella scelta dei termini. Non basta conoscere il contesto in cui si parla.

Riproponiamo, allora, a voi il suggerimento dato da Pujol nella parte conclusiva del suo discorso: “Di fronte alla situazione attuale, probabilmente bisognerà disegnare una strategia di comunicazione che incorpori un “equipaggiamento legale” (abbiamo visto l’entità della sfida posta dal secolarismo e dall’ideologia gender), e che non trascuri la dimestichezza con la tecnologia. Per affrontare questi dibattiti, i direttori di comunicazione devono avere consapevolezza della propria identità, avere argomenti convincenti ed essere allenati nelle regole del dialogo pubblico”.

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