mercoledì, Dicembre 11 2024

Molto spesso, quando si parla di aborto, si viene descritti come “misogini” se si afferma che l’aborto è un atto immorale.

La persona che vede delle criticità nell’aborto – in quanto toglie la vita a un essere umano – è accusata, in certi casi, di non considerare o rispettare i diritti delle donne, di non avere a cuore le loro fatiche e i loro problemi, di giudicarle, di offenderle. In altre parole, chi non è favorevole all’aborto “non vuole il bene delle donne”, o, peggio, le odia.

Non tutti i cosiddetti pro-choice, però, condividono questa posizione.

Di recente, il comico Bill Maher, dichiaratamente pro-choice, ha affermato su Real Time della HBO che l’aborto è un omicidio, spiegando che essere a favore della scelta della donna comporta anche questo: ammettere che lì avvenga un omicidio e conviverci. Ovviamente è stato ripreso da vari giornali, sia di destra che di sinistra, e la notizia ha generato numerosi commenti, alcuni a favore, altri contro.

La dichiarazione

Precisamente, Maher ha dichiarato: “Rimprovero la sinistra quando dice ‘loro [i pro-life] odiano le donne’. Non odiano le donne… Pensano che sia un omicidio. E in un certo senso lo è. A me va bene così. Io ci sono. Ci sono otto miliardi di persone nel mondo. Mi dispiace, non ci mancherai”.

Una posizione senz’altro schietta e sincera, seppure di un utilitarismo che fa rabbrividire: “non ci mancherà”, come a dire siamo già abbastanza su questo pianeta.

La maggior parte dei sostenitori dell’aborto, invece, nega – o ci gira intorno – la verità, perché ammettere la realtà senza edulcorarla genererebbe conflitti interiori nella coscienza di molti.

È per questo che si ha tanta cura nella scelta dei vocaboli. Si preferisce dire “interruzione di gravidanza” e non “aborto”, “libertà di scelta sul proprio corpo”, tralasciando ogni discorso sul concepito (implicherebbe parlare del “corpo di un altro”).

L’aborto può creare sofferenza: evitare di minimizzare è la prima forma di rispetto

Come spiega Chiara McKenna, autrice dell’articolo “Abortire qualcuno va bene se non ci mancherà?” ci sono due problemi principali con l’idea che il valore di una persona risieda in chi si ricorda di lei quando muore.

Prima di tutto, quei bimbi concepiti e mai nati mancheranno. Intanto, potrebbero mancare alle loro madri: alcune rinunciano alla gravidanza non senza sofferenza; la scelta può trasformarsi in rimpianto nel tempo e influenzare in qualche modo la loro vita.

Le donne che hanno abortito tra gli 11 e i 19 anni, generalmente non elaboreranno l’aborto fino all’età di 25 anni. Vicki Thorn, fondatrice di Progetto Rachele – l’Ufficio nazionale per la riconciliazione e la guarigione post-aborto – ha osservato un fenomeno: molte delle chiamate che riceveva provenivano da donne che avevano circa 25 anni.

Solo anni dopo ha approfondito la ricerca sul cervello e ha scoperto che a quella età “il collegamento tra il cervello destro e sinistro” diventa completamente attivo. A quel punto, elaborano ciò che hanno passato e ciò che hanno perso, quando in precedenza operavano “principalmente dall’amigdala, che è il centro della paura del cervello”.

Inoltre, i corpi delle donne sentono la mancanza di quel bambino che doveva nascere: l’organismo femminile si stava preparando all’evento della gestazione e al parto; la forza del legame è dirompente, viscerale. Basti pensare che, anche dopo il parto, nella donna restano delle cellule del bambino. “Queste cellule fanno parte della conoscenza biologica: manca qualcuno”, ha riferito sempre Thorn in un‘intervista alla Catholic News Agency, spiegando che i sentimenti di perdita possono emergere in qualsiasi momento, anche anni dopo. È il motivo per cui esiste la Vigna di Rachele, un gruppo internazionale che supporta le donne, le coppie, i medici che si sono pentiti della scelta di praticare un aborto.

Rifiutare l’utilitarismo: premessa necessaria per la pace tra le persone

Un secondo aspetto critico dell’argomentazione del comico riguarda che nessun omicidio – così lui definisce l’aborto – può essere giustificato perché quel qualcuno non ci mancherà.

Non uccidiamo le persone perché non hanno amici, o non hanno follower sui Social o semplicemente perché sono delle perfette sconosciute per noi. Tra cent’anni, è improbabile che qualcuno si ricordi e senta la mancanza di Bill Maher, ma questo significa che la sua vita non sia importante?

La pace è messa in serio pericolo se la vita delle persone si misura in base alla loro “utilità”.

Neonati e anziani non contribuiscono – nel loro stadio della vita – al benessere dell’intera società a livello economico, quindi per questo possiamo fare a meno di loro? Dove ci porterebbe una visione così utilitaristica della vita umana?

Si spera che l’onestà raggelante di Maher serva da campanello d’allarme per coloro che si trovano nel limbo indefinito dei “limiti ragionevoli”, che scendono a compromessi in nome di un cosiddetto “male minore” e che quanti non sanno quale posizione assumere si accorgano che scegliere il male minore non è mai lo stesso che scegliere il bene. E Maher è solo uno dei tanti esempi di dove portano i cosiddetti pendii scivolosi sui delicati temi di bioetica.

Previous

Bluey: la serie animata che sta spopolando in tutto il mondo

Next

10 consigli per evitare il tablet a ristorante

Check Also